CINA

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 24 aprile 2023

SCONTRO TRA BRIGANTI CAPITALISTI: UNO SGUARDO NEL FUTURO

 

PUO’ L’MPERIALISMO CINESE IN UNO SCONTRO MILITARE

TENER TESTA A QUELLO AMERICANO?

 

Ormai è fisso: nei paesi occidentali la Cina viene additata come il grande pericolo (e nemico) del futuro. Un pericolo destinato ad essere ampliato sempre più dai media delle borghesie europee-americana in crescente competizione contro l’emergente gigante imperialismo asiatico.    

E’ in questa prospettiva che molti commentatori descrivono le varie nazioni che si stanno posizionando per il futuro scontro contro l’irrompere del dragone nella scena mondiale. Nell’importante documento uscito dalla riunione congiunta NATO-UE il 10 gennaio a Brussel, per esempio viene sottolineato: "Viviamo in un'epoca di crescente competizione strategica. La crescente assertività e le politiche della Cina presentano sfide che dobbiamo affrontare, rimarcano la Ue e la Nato” (ANSA 10.01.2023).  Quindi senza dubbio sarà un futuro “di crescente competizione strategica“ ciò che ci aspetta, con tutte le incognite e dilemmi che ciò comporta.

E’ uno scontro che già negli anni 1950 i futuri fondatori di Lotta Comunista grazie all’analisi marxista avevano già individuato. Ne “LE TESI DEL 1957” così viene scritto: “Indirettamente il risveglio dei paesi arretrati, da un lato, mina le posizioni politiche dell’imperialismo e ne provoca alcune delle più tipiche contraddizioni [ le crisi e le guerre - n.d.r.] mentre dall’altro ne favorisce economicamente la sopravvivenza. Un chiaro esempio ci è dato dal movimento di indipendenza politica afroasiatico che indebolendo le posizioni coloniali anglo-francesi ha permesso però, nello stesso tempo una vertiginosa espansione e penetrazione di capitali americani e tedeschi”.

“Il risveglio dei paesi arretrati” si è concretizzato nei decenni successivi con l’emergere delle potenze asiatiche e particolarmente con il costituirsi del gigante Cina, che, mentre da un lato ciò  “ha permesso però, nello stesso tempo una vertiginosa espansione e penetrazione di capitali americani e tedeschi” dall’altro “mina le posizioni politiche dell’imperialismo”. Che oggi significa la messa in discussione da parte cinese dell’ordine politico imposto dall’imperialismo americano, che nel contesto attuale si manifesta  nello scontro  tra Cina e USA per l’indipendenza di Taiwan,

C’è da osservare, ma veramente, che queste previsioni, oggi realtà evidente, allora erano estremamente rare e controcorrente, sostenute da pochissime persone, in un contesto dove negli anni ’50 nel mondo imperversavano le organizzazioni maoiste terzomondiste che sostenevano che l’agricoltura, e non l’industria, avrebbe impresso il futuro del pianeta, altri vedevano invece la terza guerra mondiale alle porte,  mentre i dominanti partiti stalinisti sostenevano che l’Unione Sovietica  si sarebbe espansa in tutto il globo. 

Per cui oggi la messa in discussione dell’ordine geopolitico mondiale, cioè lo scontro interimperialistico USA-Cina, è concentrato, si manifesta in superficie, su quello che noi definiamo “il pretesto Taiwan”, dove l’imperialismo di Pechino dichiara l’isola essere territorio integrante cinese e gli USA ne difendono l’indipendenza (… da osservare che questa contesa per l’isola viene presentata in Europa essere l’esercito cinese con i suoi aerei e navi a provocare di continuo Taiwan invadendone lo spazio autonomo, mentre in Cina si sostiene esattamente l’opposto, siano gli americani con le loro navi e aerei che provocano i militari cinesi. Nello scontro tra imperialisti banditi è chiaro che è difficile, se non impossibile capire quale sia la vera verità).

La domanda chiave però è: è veramente in atto una vera provocazione militare o è solo aggressività politica verbale, come spesso accade?

Per capire in caso di vero scontro militare-bellico cosa potrebbe accadere, molti specialisti e commentatori stanno provando a fare un’analisi, un confronto di forze militari tra i due contendenti, per trarne delle conclusioni.  

In queste numerose analisi emerge da subito lo strapotere militare americano. Per es: la spesa militare globale statunitense nel 2021 è stata di 801 miliardi di dollari, mentre la Cina, secondo paese al mondo per investimenti nel settore militare, ha stanziato nel 2021 circa 293 miliardi di dollari per le sue forze armate (Sipri 2022); nel settore carri armati gli Stati Uniti dispongono (analisi “Forbes”) di 6.333 mezzi, ossia la seconda più grande armata al mondo dopo la Russia (Russia analizzata però prima dell’attuale guerra in Ucraina) mentre la Cina è terza con 5.800 carri armati. Nella potenza aerea gli USA posseggono più di 13,000 aerei militari, mentre la Cina ne ha sui 2.500. Se a questo si aggiunge poi l’enorme supremazia americana nelle testate nucleari, la superiorità nella flotta marina - portaerei e sottomarini compresi, la tecnologia militare spaziale, la missilistica, le innumerevoli basi americane sparse per il mondo, si ha la visuale netta dell’enorme superiorità bellica americana in confronto a Pechino.        

Ma, esiste un punto dove oggi le armi cinesi possono creare notevoli problemi militari all’esercito USA: i “missili balistici”. E qui è bene riportare per intero l’interessante chiarificazione del portale “RSINEWS” del 7 agosto 2022 con il titolo “Le armi cinesi che fanno paura agli Stati Uniti” che spiega bene questo ganglio militare: “I missili, vera spada di Damocle [per gli USA - n.d.r.]. Ci sono poi armi che fanno maggiormente paura agli Stati Uniti. «Tra le tante sicuramente è il settore dei missili a impensierire di più [gli USA - n.d.r.] - spiega Gilli-. Sia per la tecnologia che per le riserve che [la Cina n.d.r.] ha accumulato in questi anni. Parliamo di missili balistici e anche da crociera. Fanno paura perché potrebbero mettere in discussione la capacità delle forze aeree americane di intervenire prontamente in difesa di Taiwan qualora dovesse scoppiare la guerra. Questo perché le forze aeree americane partirebbero dalle portaerei nell’Oceano Pacifico, oppure dalle base statunitensi a Guam e Okinawa. I missili che ha la Cina però possono colpire questi bersagli danneggiandoli o distruggendoli. Oppure obbligherebbero le portaerei a operare a distanza tale da limitare la capacità dei caccia statunitensi»". Interessante poi è, come l’articolo entra nel dettaglio di questi missili cinesi: “Ad impensierire però maggiormente sono i cosiddetti Dongfeng 21D (D-F 21D), i cosiddetti “Carrier Killer”, missili balistici ipersonici a capacità nucleare anti nave, in grado di colpire a grandi distanze basi e portaerei. Preoccupano anche i Dongfeng-17 (o DF-17), nuovi missili che sarebbero stati lanciati per la prima volta dalla Cina al largo di Taiwan in questi giorni. Rientrano nella categoria degli HGV, (Hypersonic glide vehicles) sistema d’arma manovrabile, difficilmente intercettabile, in grado di bucare i sistemi anti-missilistici oggi esistenti, compresi quelli americani” (ibidem). Continua poi l’articolo spiegando che, se la Cina si dovesse impegnare in un eventuale scontro militare contro gli USA per la conquista di Taiwan “… La Cina nella zona Indopacifica è superiore. «Se consideriamo la geografia sicuramente la Cina ha un vantaggio - specifica Gilli - Gli Stati Uniti, per quanto riguarda le tecnologie avanzate, come ad 

esempio i caccia, i bombardieri, i sottomarini di attacco o con missili balistici sono avanti. Però la Cina ha un vantaggio, ossia la vicinanza all’isola di Taiwan, con lo stretto che ha un'ampiezza massima di 180 chilometri circa. Questa vicinanza si contrappone quindi alla grande distanza delle forze americane. Ciò vuol dire che sia da un punto di vista operativo che logistico il vantaggio è chiaramente da parte della Cina»"(ibidem).

In sostanza spiega l’articolo, l’imperialismo cinese in ascesa è nettamente inferiore dal punto di vista militare rispetto alla strapotenza militare americana, sia nel campo aereo, che navale, sia nei carri armati, che nelle bombe atomiche, per le basi militari, i satelliti militari, ecc. Pechino lo sa e lo ha ben chiaro. Ha però un asso nella manica: ha sviluppando un gran numero di questi missili balistici a corta e a lunga gittata definiti “killer delle portaerei”, che pur essendo molto economici nella loro produzione in rapporto alla spese che devono essere sostenute per fabbricare navi da guerra, aerei militari, satelliti, ecc. sono però estremamente efficaci e possono, o forse è meglio dire: “potrebbero”, tener lontano le navi da guerra statunitensi in una eventuale invasione dei militari cinesi sull’isola di Taiwan.  

Per capire bene l’efficacia e la convenienza di questi non costosi missili cinesi “Dongfeng” di nuovissima generazione si può fare un paragone con i missili anticarro “Javelin” e i missili antiaereo “Stinger”, ampiamente usati adesso dai militari ucraini contro i russi nell’attuale conflitto in Ucraina. Mentre l’esercito russo schiera carri armati e aerei costosissimi, i soldati ucraini usano in gran numero questi “economici” ma estremamente efficaci Javelin e Stinger contro i carri armati e aerei russi, avendone la meglio. E’ il nuovo sistema di combattimento che si sta imponendo.

Perciò in sostanza, nella diaspora “Taiwan” è su questi missili “Dongfeng” che il governo imperialistico di Pechino basa la sua aggressività politica. Mentre, riportano i dati, incrementa velocemente il suo armamento complessivo.

In tutto questo casino LA GRANDE DOMANDA PERO’ è: i predoni imperialisti cinesi-americani, in questo momento di espansione del mercato mondiale, dove possono espandere i loro affari e ricavare enormi profitti senza tanti problemi HANNO INTERESSE IN UNA GUERRA DIRETTA TRA DI LORO, DEVASTANTE PER ENTRAMBE LE NAZIONI, CHE PORTEREBBE SICURAMENTE A DISTRUZIONI INIMMAGINABILI?

La prima risposta spontanea che verrebbe sicuramente è:  NO !  

Alcuni osservatori fanno notare che questi scontri tra nazioni con parole offensive e aggressive reciproche molto spesso nascondono, vengono usate dai vari governi per “uso interno”. Spieghiamo. I governi usano spesso la cosiddetta “tattica della paura” per stringere, compattare, unire la popolazione attorno al governo centrale: per es. viene detto: “Ci sono nemici all’estero molto pericolosi che ci vogliono distruggere, annientare. Dobbiamo difenderci. Dobbiamo stare tutti uniti, concentrati per proteggerci, lasciar perdere le beghe interne, gli scioperi e le proteste, non lamentarsi e produrre di più per sconfiggere questo nemico e salvare la patria”. E’ quello che veniva detto per es. in Unione Sovietica contro gli americani e al contrario in America contro i russi; nell’ex DDR contro la Germania dell’ovest e viceversa nella Germania Federale contro la DDR; quello che ora in Israele e Arabia Saudita viene detto contro l’aggressività dell’Iran e il contrario, e in Cina ora con il “pretesto” Taiwan, dove si paventa un intervento militare americano, il quale con la scusa di difendere Taiwan vuole in realtà distruggere la “grande Cina”. La “tattica della paura” per tener oppresse le masse salariate è molto usata dai governi delle borghesie. Hitler per es. sostenuto massicciamente dalla potente stampa delle grandi imprese e banche tedesche, presentava come “grande pericolo e nemico” della patria non un nemico esterno, ma un nemico “interno”: gli ebrei. Lo scopo politico contro questo nemico era compattare la popolazione attorno al governo nazista che stava militarizzando il paese e portare poi tutti nel disastro bellico, con l’intento di sconfiggere i concorrenti esteri e conquistare nuovi mercati per le imprese e banche tedesche.

Pertanto il vero motivo dell’aggressività politica cinese su Taiwan potrebbe anche essere questo di “ragioni interne”: stare tutti uniti contro il “pericolo americano”, stringere le enormi masse proletarie cinesi a sostenere il governo stalinista. Potrebbe.

Dall’altro però, bisogna rilevarlo, ci sono correnti politiche negli USA che sostengono che sarebbe adesso il momento in cui bisognerebbe attaccare militarmente la Cina e sconfiggerla, finchè è ancora debole, poiché più avanti diverrà un grosso problema. Sono correnti politiche in America ancora molto minoritarie, ma ci chiariscono, ci aprono gli occhi, di come funziona il brutale sistema capitalista. E in Cina questi americani “anticinesi” vengono usati come pretesto, ampliati dai media per creare appunto “paura”.       

In sintesi, possiamo concludere dicendo che in questa fase di ancora forte espansione economica mondiale dove le multinazionali cinesi che americane hanno ancora enormi spazi di mercati dove condurre grandi affari e profitti, una devastante guerra tra Cina e Stati Uniti per contendersi l’isola di Taiwan è molto, MOLTO IMPROBABILE.

Però attenzione, non impossibile, nella lotta tra i banditi imperialisti.

Basti vedere cosa successo con l’Ucraina, dove Putin con il suo establishment, convinto con un colpo di mano veloce di far di un boccone l’Ucraina e mettere il mondo di fronte al fatto compiuto, come successo con la Crimea, si è inguaiato in una lunga guerra che lo sta portando al disastro.

Pertanto non è proprio da escludere che il governo imperialistico di Pechino, chissà per quali calcoli politici, decida improvvisamente con un colpo di mano di impossessarsi di Taiwan e poi con i micidiali missili “Dongfeng” tener lontana la flotta USA e mettere il mondo di fronte al fatto compiuto. 

Sui nostri cartelli scriviamo: SONO I CAPITALISTI LA CAUSA DI TUTTE LE GUERRE ! E’ proprio così. Perché, non bisogna mai dimenticarlo: viviamo nel capitalismo, e “capitalismo” significa non solo concorrenza, profitti, mercati, banche, finanza, interessi, ecc. ma anche crisi, guerre, distruzioni, stragi, disperazioni infinite. E le guerre per i capitalisti non sono cose così terribili, come noi persone normali le viviamo e interpretiamo, ma parte integrante del loro condurre gli affari. E’ questo il motivo per cui le guerre sono sempre presenti e non smettono mai.

I lavoratori aspirano ad una società equa, senza differenze sociali, dove tutti possano godere senza discrepanze, in pace e armonia, i prodotti generati dal loro lavoro. Per arrivare a questo, per ottenere questo e far finire le guerre l’umanità ha bisogno però di rivoluzioni.


 

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1969 CONFLITTO UNIONE SOVIETICA CONTRO CINA:

CAPITALISTI STALINISTI IN GUERRA TRA DI LORO.

 

 

DUE NAZIONI A CAPITALISMO DI STATO IN GUERRA TRA DI LORO PER I CINICI INTERESSI BORGHESI. E' COSI' CHE GLI STALINISTI AL POTERE INGANNANO LE MASSE PROLETARIE: DEFENENDOSI "MARXISTI" "COMUNISTI". SONO INVECE GUERRAFONDAI CAPITALISTI. 

Nella politica comunista per la realizzazione di una società superiore DUE PAESI PROLETARI RIVOLUZIONARI NON SI FANNO MAI LA GUERRA L'UNO CONTRO L'ALTRO! Questo assolutamente non appartiene alla politica  comunistaAl contrario nella vera politica comunista due paesi proletari SI UNISCONO dopo la rivoluzione!  SI UNISCONO PER PROMUOVERE E ORGANIZZARE ALTRE RIVOLUZIONI, con le quali poi ulteriormente unirsi e realizzare la rivoluzione globale. Questa è la vera, corretta, politica marxista seguita dall’Internazionale.

E’ tra paesi capitalisti che invece è normalità scontrarsi, competere tra loro, anche militarmente per rubarsi i mercati, farsi le guerre.  

Quindi l’Unione Sovietica stalinista era senza dubbio un paese capitalista-imperialista. Un imperialismo che nello scontro tra potenze, sottomettendo altre borghesie nel Patto di Varsavia (vedi repressione Berlino nel ’53, in Ungheria nel ’57, Praga nel ’70) ingaggiava anche guerre imperialiste nel mondo, come l’invasione dell’Afghanistan nel 1979. E come la guerra contro la Cina maoista nel 1969. Esattamente come tutte le altre potenze capitaliste 

occidentali.  E la Cina: ugualmente capitalista. Che, nella sua politica borghese nell’arena mondiale, non solo nel 1950 in Corea ha mosso una cruenta guerra contro gli Stati Uniti, ma nel ’69 (come sopra) si è scontrata militarmente anche con la Russia stalinista, e nel ’79 anche contro l’altrettanto stalinista Vietnam. Qui, un massacro tra stalinisti rivali.

E’ chiaro, non c’è dubbio: tutto questo non ha nulla a che spartire con il marxismo.  

La cosa però molto pericolosa è  che gli stalinisti, capitalisti nazionalisti al potere in Cina, Vietnam, e nell’ex Unione Sovietica, nel loro procedere borghese si definiscono “marxisti”, “comunisti”, ingannando le masse di tutto il mondo. Un grosso problema politico.

Sono sempre loro, da pericolosi mentitori, che sfruttando senza tanti problemi i propri lavoratori proletari, li scagliano nelle guerre contro altri proletari.

E’ evidente che c’è urgente bisogno di chiarezza.

Il compito dei marxisti, dei veri marxisti, è quindi più che mai necessario: smascherare questi impostori, e chiarire cosa sia il VERO MARXISMO e la VERA POLITICA COMUNISTA, per il futuro dell’umanità.

                                                                                                                                      28 luglio 2022


 

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Guerre tra capitalismi di stato:

1979 - GUERRA TRA CINA E VIETNAM

UN’ALTRA GUERRA TRA STALINISTI CAPITALISTI RIVALI

DOPO QUELLA TRA UNIONE SOVIETICA E CINA DEL 1969.

 

Chi non ricorda le immense manifestazioni di fine anni ’60 a sostegno del Vietnam contro gli USA? Manifestazioni con centinaia di migliaia di dimostranti che gridavano e si scontravano contro la polizia a favore del Vietnam considerato “comunista”.  Ben poche, anzi pochissime, erano le organizzazioni marxiste che del tutto contro corrente, allora sostenevano che il Vietnam non era ne comunista ne socialista. Erano le organizzazioni marxiste della “Sinistra Comunista” facenti capo a Amadeo Bordiga, Onorato Damen, Paul Mattick, Anton Pannekoek, e quella leninista di “Lotta Comunista” di Arrigo Cervetto.

Le tesi sostenute dai marxisti era che nel paese Vietnam operavano tutte le leggi capitaliste del commercio e del profitto, e non quelle del comunismo con la suddivisione dei beni. Una realtà ultra evidente. Pertanto non si poteva parlare di “paese comunista”. Di conseguenza la guerra di liberazione del Vietnam contro gli Stati Uniti andava interpretata come una guerra tra capitalisti: capitalisti del Vietnam contro l’oppressione dei potenti capitalisti americani.

Posizioni perciò supercorrette nell’analisi marxista.

La guerra tra Vietnam e USA finirà nel ’75. Ed ecco, pochi anni dopo arrivare la conferma ufficiale del carattere borghese-capitalista del paese Vietnam: nel ’79 scoppia la guerra tra la Cina maoista-stalinista contro il Vietnam altrettanto stalinista.

Motivo: i soliti interessi capitalistici.

Nel ’78, un anno prima, l’esercito vietnamita aveva invaso la Cambogia (adesso, dopo la liberazione nazionale, sono i vietnamiti che invadono un altro paese) approfittando della debolezza causata dalla guerra civile che imperversava in quel paese, per occuparne alcune regioni. Per fermare l’invasione, la Cina maoista entra in guerra da nord contro i vietnamiti. Questi, sotto attacco cinese, sono costretti a fermare l’invasione e poi in seguito a ritirarsi della Cambogia.

Come detto: una delle tante tragiche guerre capitaliste che infestano il pianeta.

Niente di nuovo nel quadro delle diaspore tra borghesie assetate di espansione.

La novità consisteva nel fatto che, come nel ’69 nello scontro militare tra Unione Sovietica e Cina, anche qui nella guerra tra Cina e Vietnam, si ripeteva e confermava lo scontro tra stalinisti capitalisti. Un evento di notevole rilevanza politica.

Ma qui non si sono ripetute le manifestazioni oceaniche per denunciare il carattere capitalista sia della Cina che del Vietnam. Le organizzazioni staliniste e maoiste che pochi anni prima avevano promosso le enormi proteste a favore del Vietnam contro gli USA, preferiscono adesso defilarsi e nel silenzio constatare il fallimento delle loro politiche (e anche delle loro proteste).

Ma i marxisti, quelli veri, invece no, questi non si sono fermati. Al contrario.

Per i marxisti della “Sinistra Comunista” e i “Leninisti” è l’occasione per riaffermare ancora una volta il carattere borghese dei due paesi stalinisti e la validità dell’analisi marxista. Quella vera, non quella distorta stalinista.

Nella lotta politica quotidiana è importante citare e sottolineare costantemente le guerre tra stalinisti. E’ importante per smascherare la vera essenza antiproletaria di queste organizzazioni che si sforzano di apparire “leninisti”. E che senza pudore continuano ad usare la terminologia “marxista” per giustificare le loro sporche azioni borghesi nazionali e internazionali, come l’odierna guerra tra Russia-Ucraina dove ancora una volta gli stalinisti, tutti schierati a sostegno dell’imperialismo russo, si definiscono “comunisti”.

                                                                                                                                13 agosto 2022


 

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LA CINA E’ DIVENTATA CAPITALISTA NEGLI ULTIMI TEMPI O E’ SEMPRA STATA CAPITALISTA?

 

QUASI TUTTI I GRUPPI TROTZKISTI OGGI AFFERMANO CHE LA CINA DA PAESE “SOCIALISTA” DIRETTO DA “UNA BUOROCRAZIA DEGENERATA” SI E’ TRASFORMATA IN UN PAESE A “CAPITALISMO DI STATO”. PER I LENINISTI COME NOI, LA CINA NON E’ MAI STATA “SOCIALISTA-DEGENERATA”, MA FIN DAL SUO INIZIO UN PAESE CAPITALISTA, A “CAPITALISMO DI STATO”. 

 

La Cina sta vivendo uno sviluppo eccezionale. In 40 anni da quando la sua economia era essenzialmente agricola, si ritrova ora ad essere un paese altamente industrializzato, con la prospettiva di diventare a breve la prima economia del mondo, sorpassando gli Stati Uniti. 

Mentre molti dei suoi settori industrializzati altamente tecnologizzati si stanno espandendo velocemente in tutto il mondo, in contemporanea si alzano sempre più voci di paura che gridano al “pericolo Cina”, denunciando come il concorrente sia “aggressivo” e senza “tanti scrupoli”. 

Il Dragone si definisce “comunista” e così viene definito in tutto il mondo. Ma molti cominciano a dubitare di questo suo presunto “comunismo”. Sono soprattutto le organizzazioni radicali trotzkiste che adesso non riescono più a vedere nel paese Cina un paese “socialista”, ma “capitalista”, visto che nel suo impetuoso crescere economico stanno emergendo prepotentemente colossi multinazionali ultramiliardari, che, invece di seguire le regole “socialiste” come nella visuale trotzkista, nei loro affari procedono in modo identico agli odiati gruppi capitalistici occidentali.    

Negli ultimi tempi quindi, si trovano nelle dichiarazioni ufficiali di questi gruppi trotzkisti affermazioni dove la Cina adesso è una nazione a “capitalismo di stato”, e non più “socialista con una direzione burocratica corrotta e degenerata”, come da loro il Dragone sempre definito (così come Trotzkij – (erroneamente) definiva la Russia sotto Stalin ancora: “socialista”, fuorviata però da una “burocrazia corrotta”).

Per i trotzkisti la “svolta” da “socialismo degenerato” a “capitalismo di stato” è da ricondursi  agli anni ’80, quando alla direzione del paese giunge “Deng Xiaoping” che ha virato su una “radicale trasformazione sociale”.  

Ma è così, e cioè che solo recentemente la Cina è diventata capitalista, o lo è sempre stata, cioè è sempre stata un paese a capitalismo di stato?

 

I  LENINISTI 

Noi leninisti (così come la Sinistra Comunista) affermiamo da sempre, invece, (nei nostri scritti e dichiarazioni) che lo stato cinese è SEMPRE STATO CAPITALISTA, FIN DAL SUO INIZIO. Cioè fin dalla sua costituzione e nascita avvenuta nel 1943 a direzione Mao Zedong. CAPITALISTA nella forma appunto del “CAPITALISMO DI STATO STALINISTA”.  

 

Perché già dalla sua fondazione chiaramente e senza dubbi si potevano trovare nella sua economia principalmente contadina le leggi mercantili della domanda e dell’offerta tipiche del capitalismo, con il commercio, la concorrenza, gli affari (diretti dallo stato), i profitti, i salari, lo sfruttamento, le banche, il settore creditizio, ecc. E questo chiaramente ne conferma la sua natura sociale capitalista. Le “degenerazioni” che i Trotzkisti nel presunto “socialismo cinese” ne vedevano, non erano altro che le normali contraddizioni capitalistiche caotiche che caratterizzano il capitalismo, anche nel settore contadino, contraddizioni che qualsiasi paese subisce. Quindi nessuna “degenerazione”, ma caotica e corrotta situazione capitalistica.

La famosa “svolta di Deng Xiaoping” degli anni ’80 è stata solo di dare alla nazione capitalista cinese, in una economia essenzialmente agricola, una forte accelerazione di sviluppo verso l’industria. Una accelerazione nell’industrializzazione che tutte le economie del mondo nella loro crescita ad un certo punto hanno sempre operato e operano.  Niente di nuovo.

Perciò, lo ribadiamo, la gestione Deng Xiaoping non è stata il “cambio radicale” da “socialismo degenerato” a “capitalismo di stato” della società cinese, ma naturale continuazione di una economia capitalistica che da “contadina” si è evoluta ad “industrializzata” (processo tra l’altro ben spiegato dallo stesso Marx nella sua opera “Il Capitale”) prassi comune di tutte le economie mondiali.  

 

CORRETTA  ANALISI  

La corretta analisi della Sinistra Comunista (assunta poi anche dai leninisti) che alla fine degli anni ’40 definiva la Cina come “Capitalismo di Stato”, con i decenni sviluppandosi l’economia questo capitalismo è diventato ovviamente sempre più che mai evidente e visibile, fino al punto che ora anche molte altre organizzazioni di sinistra (e non solo) definiscono la Cina borghese e capitalista.    

Dobbiamo perciò constatare, che le organizzazioni trotzkiste di sinistra ancora non hanno chiaro il meccanismo che contraddistingue una società da “socialista” a “capitalista”, e questo è nel nostro compito chiarire e spiegare.

L’evidenza della correttezza d’analisi della Sinistra Comunista e dei leninisti quindi è fuori discussione.

 

                                                                                                     "Der kommunistische Kampf "     giugno  2022


 

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IL MONDO CAPITALISTICO SEMPRE IN EVOLUZIONE

 

FIRMATO L’ACCORDO ASIATICO RCEP

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L’IMPERIALISMO CINESE DIRIGE

LA PIU’ GRANDE ZONA DI LIBERO SCAMBIO DEL MONDO

 

LA CONCORRENZA TRA POTENZE IMPERIALISTE

STA TRASFORMANDO GLI EQUILIBRI MONDIALI

  22 dicembre 2020

 

Mentre Trump nel 2017 revocava l’accordo di libero scambio Trans-Pacific Partnership (TPP) e quello con l’Europa TTIP e attaccava frontalmente il concorrente Cina con dazi e sanzioni, il governo dell’imperialismo cinese stava già da molto tempo prima tessendo la sua tela per creare in Asia l’area di libero scambio più grande del pianeta.

E infatti nel novembre di quest’anno è arrivata la firma ad Hanoi in Vietnam del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) un accordo di libero commercio tra 15 nazioni dell’Asia e del Pacifico che include un terzo del PIL mondiale e coinvolge 2,2 miliardi di persone. Nell’accordo, oltre alla promotrice Cina, tra i 15 paesi aderenti  troviamo il Giappone, il Sud Corea, l’Australia e la Nuova Zelanda. Tutti i giornali hanno dato forte risalto al fatto che il RCEP è stato voluto fortemente su iniziativa di Pechino. Le trattative per l’accordo erano iniziate già nel 2012 quando Obama come presidente americano stava contrattando con le nazioni asiatiche e del Pacifico gli ultimi dettagli per la costituzione dell’area Trans-Pacific Partnership (TPP), e perciò la nascente iniziativa cinese RCEP allora veniva vista dai commentatori come la contromossa di Pechino al TPP americano.

L’area RCEP, con questa portata, lancia l’imperialismo cinese naturalmente, a svolgere un ruolo di primo attore sulla scena internazionale e spiana la strada per diventare a breve ufficialmente la prima potenza economica mondiale.

Possiamo senz’altro affermare che nel prossimo futuro la scena internazionale non sarà più contrassegnata solo dalle mosse dell’imperialismo americano ed europeo come avvenuto fin d’ora, ma certamente entreranno in risalto anche quelle cinesi.

“L’accordo riduce le tariffe doganali, stabilisce regole commerciali comuni e quindi facilita le catene di approvvigionamento. Comprende commercio, servizi, investimenti, commercio elettronico, telecomunicazioni e diritti d’autore” spiega il Tagesschau del 15 novembre 2020. Su questi presupposti per l’industria cinese - evolutasi ad alta tecnologia - si apre adesso la possibilità di vendere ai paesi del RCEP, asiatici e del Pacifico, senza restrizioni doganali i suoi prodotti di avanguardia: impianti industriali, treni ad alta velocità, centrali elettriche e atomiche, dighe, aerei e aeroporti,  impianti telefonici, 

 

armamenti sofisticati, ecc, rafforzandosi così sulla scena mondiale nel peso e nel ruolo. Anche la Cina quindi svolgerà in Asia la sua funzione imperialistica, esattamente come la svolgono gli Stati Uniti nelle Americhe e nel mondo e la Germania in Europa (confermando il meccanismo capitalistico descritto così bene da Lenin nel suo famoso trattato: “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”). 

I giornali riportano come i capitalisti occidentali, cioè gli imprenditori e la finanza, siano molto preoccupati per l’espansione in Asia del Dragone. Perché Pechino accrescendo enormemente il suo potere può mettere in difficoltà i loro affari. 

Infatti il neo eletto presidente USA Joe Biden ha già affermato in uno dei suoi primi discorsi, che il più grande pericolo per gli affari americani nel mondo rimane - in continuità con quanto  dichiarato da Trump - sempre la Cina e che adotterà tutte le misure necessarie per il caso. Detto da uno che assieme a Obama ha già promosso due guerre, una in Siria e l’altra in Libia, la cosa la dice lunga.   

In questo scenario RCEP, da segnalare come la capitalistica India, che all’inizio sembrava molto interessata, si sia poi ritirata dall’accordo. Molti commentatori ne vedono come causa il fatto che il liberismo dell’RCEP può danneggiare seriamente l’economia indiana. Altri invece, nella rinuncia indiana ne interpretano una mossa politica del governo di Delhi di non avvalorare la potenza cinese come leadership dell’area. In altre parole, l’intenzione di Delhi è mantenere il capitalismo indiano (anch’esso in forte espansione e futura potenza mondiale) su una posizione politica internazionale autonoma, di non aperto schieramento, ne con gli Stati Uniti ne con la Cina. Questa è anche la nostra interpretazione sul ritiro indiano.

 

Un mondo capitalistico in continua modificazione quindi. E che noi marxisti dobbiamo continuamente monitorare e tenere sotto stretta osservazione per non venir poi manipolati e coinvolti nello scontro tra i vari schieramenti capitalisti-imperialisti.  

Perché è a tutti noto che il mondo capitalistico è estremamente imprevedibile, causa lo scontro di interessi che lo muovono. E che la domanda è: come reagiranno le nazioni capitaliste concorrenti a fronte di questa mossa imperialistica cinese?


 

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CINA, UNO STATO CAPITALISTA.

 

ERA GIA’ POSSIBILE  VEDERLO DAL SUO INIZIO

 

Si, con l’analisi marxista era possibile già dalla sua nascita 70anni fa, capire con facilità la sua natura capitalista  

 

 (traduzione da "Der kommunistische Kampf" - ottobre  2019)

ECCO COSA LEGIFERA L’Art. 26  DELLA COSTITUZIONE DELLA “REPUBBLICA POPOLARE CINESE” MAOISTA AL MOMENTO DELLA  SUA FONDAZIONE NEL 1949.

 

«Art. 26 - Il principio fondamentale della costruzione economica della Repubblica Popolare Cinese è l’applicazione di una politica che curi tanto gli interessi privati che gli interessi pubblici, che avvantaggi tanto i padroni che i lavoratori, che incoraggi il mutuo aiuto fra la città e la campagna, e lo scambio di merci fra il nostro paese e i paesi stranieri, in vista del fine di far sviluppare la produzione e far fiorire l’economia. Lo Stato deve coordinare e regolamentare l’economia di Stato, l’economia delle cooperative, l’economia individuale dei contadini e degli operai manuali, l’economia del capitalismo privato e l’economia del capitalismo di Stato (...) in modo che tutte le componenti economiche-sociali possano avere il loro ruolo particolare, compiere la loro funzione, e cooperare fra loro sotto la direzione dell’economia di Stato per lo sviluppo dell’economia sociale nel loro complesso».

 

 

      Questo è l’evidente classico e chiaro articolo di costituzione di una repubblica apertamente borghese-capitalista. Un articolo che imprime chiaramente il suo carattere borghese alla nazione e assolutamente contrario ad un programma socialista-proletario che abbia come fine il comunismo attraverso la rivoluzione internazionale per arrivare all’eleminazione delle classi, dello sfruttamento, dei ricchi, del profitto. Quindi fin dall’inizio la Costituzione della “Repubblica Popolare Cinese” ha sempre parlato chiaro in proposito alla sua sostanza: nessun fine comunista. 

 

PERCHE’ ALLORA NEL PASSATO ENORMI MOVIMENTI GIOVANILI SI SONO BATTUTI A FAVORE DELLA CINA CONVINTI CHE NEL PAESE  ESISTESSE IL SOCIALISMO?  E QUANTE ENERGIE SI SONO SPRECATE IN PROPOSITO PER QUESTO FALSO OBIETTIVO?

      Oggi quei movimenti non esistono più, sono scomparsi. Sono scomparsi man mano che la Cina si sviluppava economicamente mostrando sempre più i suoi evidenti caratteri capitalistici, anche se le sue dirigenze staliniste-capitaliste hanno continuato e continuano ad appicicarsi espressioni ufficiali come “edificazione del comunismo” o “socialismo”.   

       Ma se nel passato enormi movimenti giovanili hanno inutilmente lottato per un presunto “socialismo maoista”, altri movimenti marxisti avevano invece molto chiaro da subito la realtà capitalista dell’inganno maoista cinese.     

       E’ a uno di questi gruppi, il “Partito Comunista Internazionale”, condotto dal grande marxista Bordiga che il carattere di “rivoluzione borghese” della Cina è sempre stato più che mai evidente già dal suo inizio. Questa la definizione nella loro analisi: “Una Cina borghese di sinistra che ha rinunciato al passaggio ad una rivoluzione socialista e che spaccia, come nella Russia staliniana, per socialismo un capitalismo di Stato”.  Specificando poi che il PCC di Mao-tze-tung aveva condotto una lunga guerra civile “spacciando per socialiste schiette forme e rapporti di produzione mercantili e borghesi”.

       Una valutazione senza dubbio realista, schietta e chiara. Analisi esplicitata nel loro articolo “L’epilogo borghese della rivoluzione cinese si legge nel suo passato dal quale abbiamo tratto anche la dicitura dell’art.26 della Costituzione cinese che presentiamo all’inizio.

MA PERCHE’ QUESTI MARXISTI PARLANO DI RIVOLUZIONE CINESE “BORGHESE” e non di rivoluzione SOCIALISTA come comunemente si vuol far passare?

      Nell’interessantissima analisi e studio che l’articolo presenta, nel capitolo 140 “Bilancio di una rivoluzione borghese, il giornale bordighista chiarisce anche nei particolari gli scopi economico-sociali capitalistici del maoismo cinese alla sua nascita.

       Ecco l’esplicitazione: “Primo importante atto della Repubblica Popolare cinese” evidenzia l’articolo “fu la Legge Agraria del giugno 1950, legge prudente e relativamente “liberale” (…). La “riforma” durò praticamente quattro lunghi anni, scosse fin alle fondamenta il mondo rurale cinese (...) poi “Lo Stato si appropriò subito del monopolio del commercio dei cereali, regolamentò i prezzi delle derrate alimentari tramite acquisti e vendite del monopolio di Stato, richiese corvée gratuite per la regolamentazione dei corsi d’acqua e stese nelle campagne la sua rete di “quadri”, funzionari per inquadrare, dirigere e sorvegliare le masse contadine, immensa risorsa di forza lavoro, fino nel più sperduto villaggio”.

        L’analisi evidenzia egregiamente come la conduzione sia classica in un capitalismo di stato diretta da un partito di stampo stalinista (come Cuba o Nord Corea) che ha come fine il rafforzamento capitalista della nazione partendo dai contadini. Come detto, sono invece i lestofanti partiti stalinisti al potere che imbrogliano il tutto parlando con altisonanti dichiarazioni, di “edificazione del socialismo” o “interessi del proletariato” per meglio far rendere i contadini.

        Oggi il procedere capitalistico cinese è evidente 


 

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SCONTRO TRA IMPERIALISMI CINA-USA

 

 

  (traduzione da "Der kommunistische Kampf" - luglio 2019)

 

La Cina ha raggiunto da alcuni anni lo status economico-politico di imperialismo. Nella sua economia si possono trovare ora multinazionali, monopoli, enormi complessi economici finanziari, esattamente come descritto da Lenin nel suo “Imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Multinazionali, grossi complessi industrial-finanziari che nella società comunista assolutamente non esistono. Quindi com’è evidente la Cina non ha niente a che fare col comunismo.

Alcuni stati capitalisti si definiscono spudoratamente “socialisti” o “comunisti”, ma è tutto un inganno. Le borghesie statali che la vi padroneggiano (Cina, Cuba, Nord Corea) usano questo inganno proprio per meglio dominare e sfruttare i lavoratori così da aumentare i propri profitti.

Il capitalismo statale (il capitalismo può anche essere statale) cinese grazie a questo inganno ha potuto accumulare nei decenni scorsi enormi capitali, e adesso come capitalismo imperialista è pronto per entrare in concorrenza contro gli altri imperialismi, in particolare contro quello dominante americano. E le cronache registrano appunto che lo scontro tra i due colossi si sta facendo sempre più aspro.

Dopo il noto aumento dei tassi americani sulle merci cinesi importate in USA e la reazione cinese di alzare a sua volta i dazi in Cina sulle merci americane, è seguito l’attacco USA contro la multinazionale cinese Huawei delle comunicazione, la quale, come riportato sopra, contrattacca esigendo in America miliardi per il compenso del proprio brevetto.

Ma l’intervento economico dell’imperialismo cinese non è concentrato solo in Nord America, ma spazia dall’Europa all’Asia, fino a coinvolgere l’intero continente africano. E la preoccupazione dell’espansione cinese in Africa coinvolge non solo le multinazionali americane, ma soprattutto quelle europee, per le quali l’Africa è sempre stata considerata  “proprio terreno d’affari”.

Ovviamente per le multinazionali di tutti i paesi, europei o cinesi o americani che siano, l’interesse africano non è “umanitario” o di “pace” o “collaborazione” come viene presentato, ma è l’occasione per far montagne di soldi anche sulla pelle dei lavoratori africani.  

E di conseguenza anche in questo continente la concorrenza tra imperialismi si accende. Spudoratamente le varie nazioni che sgomitano per procacciare affari si accusano reciprocamente di “neocolonialismo”. Ma in questa ennesima battaglia sembra proprio sia l’imperialismo cinese quello che alla meglio stia sfruttando l’occasione in quella che viene definita dai concorrenti occidentali “la conquista cinese dell’Africa”.

Interessante è come nell’articolo “La campagna d’Africa” il giornale “Il foglio” del 7 febb. 2019 presenta con invidia le “furbizie” e i “trucchi” dei capitalisti cinesi per la loro espansione. A riguardo di come operano le aziende di Pechino dice: “Il problema però è nella natura degli investimenti cinesi, e nella cosiddetta ‘trappola del debito’: le opere sono finanziate con prestiti cinesi, che se poi non possono essere ripagati costringono il paese [dov’è avvenuto l’investimento – n.d.r.] a cedere quelle stesse infrastrutture. Il caso scuola è quello dello Sri Lanka, e del porto di Hambantota: il governo di Colombo non è riuscito a ripagare il debito contratto con Pechino, e nel dicembre del 2017 ha dovuto cedere il controllo del porto”.  Questo “trucco” viene perciò preso a pretesto dalle borghesie concorrenti per accusare l’imperialismo cinese di operare uno “sfruttamento delle risorse naturali altrui”, tacendo che loro come imperialisti occidentali lo hanno sempre fatto e lo stanno facendo tutt’ora.

Ma veniamo alle impressionanti cifre dell’attivismo capitalista di Pechino nel continente africano. Seguiamo sempre quanto relaziona l’articolo “La campagna d’Africa” del giornale “Il foglio”: “Secondo l’agenzia di stampa cinese Xinhua, il 2018 è stato il nono anno consecutivo nel quale la Cina si è posizionata al primo posto come partner commerciale del continente africano, e sfiora i cento miliardi di dollari di volume complessivo”, prosegue: “L’ultimo Forum sulla cooperazione Cina-Africa che si è svolto a Pechino lo scorso settembre è stato una specie di rito di consacrazione della strategia del presidente Xi Jinping nel continente africano. Quasi tutti i capi di stato africani sono volati nella capitale cinese”.Praticamente nell’ultimo decennio l’imperialismo cinese è riuscito a stringere forti legami affaristici con quasi tutti i paesi africani (escluso stando all’artico, il Burkina Faso e il Regno di eSwatini) i quali hanno instaurato un stretto rapporto con Pechino. Impressionante.

Ma ciò che preoccupa i capitalisti occidentali non è solo il fatto economico dell’espansione cinese, ma anche il suo risvolto politico. Sulla spinosa questione di Taiwan per esempio, dove l’isola si considera indipendente dalla Cina mentre Pechino invece la considera come proprio territorio, l’articolo riporta: Dopo la decisione del Burkina Faso, tra i paesi africani a riconoscere Taiwan è rimasto soltanto il minuscolo regno dell’Africa del sud, lo Swaziland, ufficialmente Regno di eSwatini”. In pratica, tutti i paesi africani, escluso appunto il Burkina Faso e il Regno di eSwatini, sostengono Pechino contro Taiwan nella disputa di considerare l’isola territorio cinese. L’espansione della Cina perciò non è solo un affare economico, ma com’è logico che sia, è anche politico.

L’articolo (molto informato) specifica sinteticamente anche gli affari di Pechino in Africa. In breve: Marocco“i cinesi puntano soprattutto al porto Tangeri Med, ma finora la Cina si è aggiudicata i lavori del porto di Kenitra e la linea di Alta velocità tra Marrakech e Agadir”. Algeria: “gli investimenti esteri diretti della Cina (Ide), le infrastrutture costruite da compagnie cinesi sul suolo algerino, l’arrivo di migranti cinesi nel paese”. A novembre 2018 la Cina ha donato 28,8 milioni di dollari all’Algeria come parte del contributo economico e tecnico”. Egitto: “Sarebbero 10 miliardi di dollari gli investimenti diretti esteri nell’anno fiscale 2018-19, nell’anno precedente erano stati “solo” 7,9 miliardi. Sin dal 2017 la Cina è il maggior investitore del canale di Suez, e da anni ormai miliardi di investimenti finiscono nel China-Egypt Suez Economic and Trade Cooperation Zone, zona speciale considerata un “modello” di cooperazione tra i due paesi”. E poi Libia, Sudan, Kenia, e così via.

 

La concorrenza tra imperialismi sul mercato internazionale è destinata quindi, è evidente, ad acuirsi. Non può esistere nel sistema capitalistico armonia, la collaborazione, l’equilibrio, come molti auspicherebbero o vorrebbero. La storia insegna: il capitalismo è caotico, ogni capitalista pensa a se stesso e al proprio interesse di come far soldi senza guardare in faccia nessuno.  

-UN MONDO CHE STA VELOCEMENTE CAMBIANDO-

 

-VERTICE IN CINA DI WUZHEN-

CINA, INDIA, RUSSIA STRINGONO ACCORDI, PER CONTRAPPORSI

A USA E EUROPA

GLI IMPERIALISMI NEL MONDO COMINCIANO AD AGGREGARSI 

IN GRUPPI, PER MEGLIO CONTRAPPORSI TRA DI LORO IN CAMPO ECONOMICO, COMMERCIALE, E NATURALMENTE MILITARE. 

 

   (traduzione da "Der kommunistische Kampf" - giugno 2019)

 

Il mondo capitalistico è un mondo instabile, come il passato tragicamente ci ricorda. Il vertice di Wuzhen in Cina del 27 febbraio tra Cina, India e Russia, noi marxisti non lo interpretiamo come un fattore di stabilità, pace e prosperità, come viene presentato dai media dei tre paesi partecipanti, ma un altro degli elementi dello scontro e della destabilizzazione nell’ingovernabile polveriera capitalista. Non vogliamo essere catastrofisti, cerchiamo di essere realisti.

Lo scontro commerciale su dazi tra America e Cina, il duro attacco Usa con inasprimento delle sanzioni contro Iran e Russia, il pressing di Trump alle nazioni europee, ma soprattutto alla Germania e Giappone di far quadrato e unirsi strettamente nella NATO (alleanza militare occidentale) e di sostenerla attivamente, la controreazione di Cina, Russia e India che si stringono in una collaborazione sempre più stretta per difendere i loro interessi capitalistici, tutto questo ci dice che, come nel passato, gli imperialismi nel mondo si stanno ancora una volta associando in un legame sempre più stretto di blocchi di potenze antagoniste per contrastarsi le une all’altre. Infatti l’iniziativa cinese del vertice di Wuzhen, tra Cina, India e Russia viene vista, non solo da noi marxisti, ma anche da diversi commentatori internazionali, come un primo passo per la costituzione di un polo di controbilamciamento asiatico alla forza occidentale americana-europea-giapponese.

 

Naturalmente Sputnik, il portale multilingue website-internet del governo russo che riporta la notizia del vertice, com’è prassi, da un’interpretazione del tutto benevola del summit del 27 febbraio.

Riferisce il portale, che il vertice di Wuzhen è stato voluto e organizzato propriamente dalla Cina per, come motivazione ufficiale, salvaguardare la pace e la stabilità nel mondo, contro l’irresponsabilità del prepotente Trump, che sostenuto dagli alleati europei e giapponesi, tutti assieme stanno creando il caos, mettendo in pericolo gli equilibri mondiali esistenti, iniziando una guerra dei dazi e inasprendo sanzioni per provocare i paesi concorrenti.  

L’articolo ben informato titolato “Incontro dei ministri Esteri di Cina, Russia e India: si rafforza il triangolo eurasiatico”, entra nei contenuti dei temi discussi nel vertice. Innanzi tutto inizia affermando che il summit è la risposta all’ostilità americana dove “Ultimamente gli USA stanno incrementando la loro presenza militare in Europa e sono usciti in maniera sconsiderata dal Trattato sulle forze nucleari a medio raggio. Di fronte a Russia, India e Cina si staglia una minaccia diretta alla sicurezza collettiva. Poi mettendo l’accento sull’esigenza di una maggiore collaborazione tra Russia, India e Cina (denominati adesso RIC) in campo economico e commerciale, citando i problemi di confine esistenti tra India e Pakistan continua: “Il fatto che talvolta i vari interessi politici divergano, è un processo naturale che non deve diventare un ostacolo alla buona riuscita delle consultazioni tra le tre nazioni, e prosegue poi affermando che tra Russia, Cina e India La presenza di discordanze è un processo naturale. Il compito dei militari è far sì che queste non si trasformino in conflitti. È sempre possibile trovare punti di contatto, tanto più che le posizioni di Russia, Cina e India sulle questioni chiave di sicurezza regionale coincidono".  In pratica si sottolinea che il contatto tra le tre potenze dovrà essere continuo e collaborativo per, da una parte evitare che interessi divergenti si trasformino in conflitti armati, dall’altra favorire una maggiore integrazione economica tra i tre paesi stessi.

L’articolo si spinge infine addirittura a riportare che “ In Russia personalità politiche e politologi ritengono che in linea teorica sarebbe possibile costituire un'unione militare con India e Cina. "Secondo me invece si tratta di una prospettiva troppo indefinita e lontana nel tempo", così ha commentato la questione Mikhail Khodarenok, esperto militare e colonnello in pensione”. Sputnik precisa in seguito che questo intento militare al momento è solo un desiderio. Ma intanto si butta il sasso per ipotizzare anche una futura convergenza militare.

Le potenze-colosso emergenti in Asia cominciano chiaramente ad organizzarsi per far valere i loro interessi imperialisti sui mercati internazionali. Nel mondo capitalistico della concorrenza questi nuovi concorrenti emergenti vengono visti come un “pericolo” dai “vecchi imperialismi”. Lo scontro prima o poi sarà quindi inevitabile.


 

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CONTRASTI TRA BORGHESIE-

LA CINA SVALUTA LO YUAN PER AGGIRARE I DAZI AMERICANI

    (traduzione da "Der kommunistische Kampf" - novembre  2018)

-RIFLESSIONI, APPROFONDIMENTI-

SE MAO SAPESSE… 

ECCO PERCHE‘ LA CINA NON

E‘ MAI STATA COMUNISTA

 … MA UNO STATO CAPITALISTA, NELLA FORMA DEL CAPITALISMO DI STATO, CON L’OBBIETTIVO DI ACCUMULARE CAPITALI E RICCHEZZE.

 

  (traduzione da "Der kommunistische Kampf" - novembre  2018)


 

Non è per caso che Trump abbia improvvisamente attaccato la Cina con una pesante guerra commerciale. Trump non è la persona impazzita che improvvisamente (come il cattivo dei film) decide di attaccare il mondo e sconvolgerlo. Da molto tempo in America gli economisti e dirigenti delle grandi multinazionali e della finanza si lamentano sui media dello strapotere che la Cina sta assumendo nel mondo e Trump, presidente degli Stati Uniti assieme alla sua Amministrazione come rappresentanti degli interessi della potente borghesia americana (coma sovrastruttura degli interessi americani, direbbe Marx nella sua analisi) perseguendo l’obbiettivo di difendere “gli interessi del proprio paese” attacca quindi il forte concorrente asiatico.

E non è un caso che l’attacco condotto dall’Amministrazione Usa contro la Cina sia anche contro altre borghesie emergenti come Russia, Iran, Venezuela, e lo scontro sia iniziato violentemente all’inizio del 2018. Tutto questo non è casuale proprio perché verso la fine del 2017 i governi di Pechino, Mosca, Teheran e Caracas, (vedere ‘Der kommunistische Kampf’ articolo “Petro-Yuan contro Petro-dollaro, una bomba nello scenario internazionale!” – Aprile 2018) hanno annunciato ufficialmente al mondo che non avrebbero più usato il dollaro nei loro interscambi commerciali. Una mossa che a detta degli specialisti, creerà notevoli problemi in futuro alla finanza e all’economia americana. Queste  borghesie che sfidano i potenti Stati Uniti con una mossa così eclatante, sapevano perfettamente che così facendo avrebbero causato la reazione americana. E la reazione violenta Usa contro Russia, Cina, Iran e Venezuela, con l’elevazione dei dazi e le numerose sanzioni punitive, com’è ufficiale, non si è fatta aspettare. Ma Trump nell’attacco non si ferma solo contro queste nazioni, agisce anche contro altri paesi come Turchia, Germania e l’Europa, paesi membri Nato e alleati Usa, se non aderiscono e ubbidiscono alle ritorsioni americane contro i nuovi concorrenti “dissidenti”.

 

PERCHE’ TRUMP CONTRO LA CINA USA COME RITORSIONE L’INNALZAMENTO DEI DAZI ALLE MERCI CINESI E NON ALTRE MISURE, COME PER ESEMPIO LE SANZIONI?

Molto dell’attuale sviluppo dell’economia cinese è dovuto dalla vendita dei prodotti cinesi nei paesi occidentali e soprattutto in USA. La borghesia affarista industriale cinese che dirige l’economia del dragone risedendo e dirigendo il tutto dai vertici dello stato (definendosi falsamente “comunista” per ingannare i lavoratori)  esporta e vende nei paesi avanzati manufatti di prima necessità  (cioè prodotti fatti con una bassa tecnologia industriale, come vestiario, scarpe, prodotti elettronici, giocattoli, suppellettili, elettrodomestici, pezzi di ricambio, e così via) per parecchie centinaia di miliardi di dollari. Queste vendite servono a Pechino per raccoglie moneta pregiata come dollari, euro, yen. Monete pregiate che permette poi al governo cinese di comperare, sempre dai paesi altamente industrializzati e tecnologizzati, ulteriori impianti industriali ed alta tecnologia per aumentare ancor più la propria area industriale in Cina. Ovviamente tutto questo avviene, com’è di pubblico dominio, tenendo al minimo possibile gli stipendi dei lavoratori cinesi e alzandone al massimo lo sfruttamento con orari di lavoro lunghissimi e intensissimi. Sfruttamento che permette non solo una forte accumulazione di capitale, ma anche immensi guadagni e ricchezze ai dirigenti borghesi del cosiddetto ma falso “Partito Comunista Cinese”.

Questo sistema di sviluppo, di interscambio commerciale, questa accumulazione iniziale, è una fase che tutti i paesi capitalistici in via di industrializzazione hanno già attraversato, e che adesso anche le borghesie degli attuali paesi emergenti seguono.

Le nuove borghesie entrando nella scena mondiale, nel passato come oggi, si trovano a subire  però la concorrenza e il contrasto delle forti borghesie dominanti già esistenti. L’Amministrazione Trump sta cercando appunto di ostacolare, di frenare l’espansione dei nuovi arrivati. I quali, dalla visuale americana, vogliono arricchirsi ed espandersi a spese e a danno gli interessi degli affaristi americani nel mondo. Agli occhi dei proletari questo può sembrare un’assurdità, ossia che una nazione cerchi di fermare lo sviluppo di un’altra nazione, ma il capitalismo funziona e ha sempre funzionato così. Un paese emergente diventa importante per le borghesie già esistenti quando permette loro di investire in quel paese e vendere i propri prodotti e produrre quindi profitto. Ma rappresenta un pericolo appena il paese emergente diventa troppo potente. Sono i paradossi, le contraddizioni del sistema capitalistico, ben descritte da Marx nelle sue opere, ed è per questo quindi che esiste la necessità di passare ad un’altra società, una società superiore.      

Tornando all’Amministrazione Trump, l’attuale mossa dell’innalzamento dei dazi Usa alle merci cinesi ha perciò lo scopo di chiudere i mercati occidentali alla Cina (dichiarata assieme alla Russia da Trump ufficialmente e senza sosta “Il pericolo maggiore per l’America”) per arrivare a isolarla così da imporre all’establishment cinese le condizioni americane.

All’innalzamento dei dazi in Usa il vertice borghese cinese a Pechino risponde con una forte svalutazione della propria moneta (lo yuan o renminbi). E’ una contromossa classica in queste situazioni nel mondo capitalista (così ha fatto anche il governo turco in agosto, quando ha svalutato improvvisamente la lira turca, allorchè Trump aveva preso la decisione, come ritorsione, di alzare i tassi doganali in Usa anche contro le merci turche).

La Cina e la Turchia lo possono fare, cioè possono svalutare improvvisamente le loro monete, perché entrambe non sono ancora potenze finanziarie (Stati Uniti e Europa per es. non lo potrebbero fare, essendo nazioni monetarie che prestano soldi in tutto il mondo). Se la Cina e la Turchia fossero grandi potenze finanziarie prestatrici di soldi e improvvisamente svalutassero le loro monete del 20-30% come successo adesso, chi nel mondo detenesse yuan cinesi o lira turca si troverebbe improvvisamente con un valore in meno del 20-30%, quindi perderebbe molto denaro, perciò scapperebbe subito da queste valute e nessun capitalista al mondo vorrebbe più avere a che fare con lo yuan cinese o lira turca. Non essendo che Cina e Turchia sono forze finanziarie, la loro contromossa svalutativa può quindi funzionare, creando solo problemi secondari al loro mercato interno

Il mercato capitalistico è caotico, si sa. E’ anche incontrollabile e spesso difficile da comprendere. E’ un mondo di continuo scontro e contrasto tra borghesie per arrivare ad ottenere il massimo profitto. Uno scontro dove le masse lavorative purtroppo ne vengono sempre coinvolte e trascinate.

 

 

Con titoli avvincenti tipici delle cultura cinese come “Vita!”, “L’uomo che vendette il suo sangue”, “Il settimo giorno”, “La Cina in 10 parole”, “Cries in the Drizzle” (Piange nella pioggerella) e “Fratello”, Yu Hua nelle sue opere mette l’accento soprattutto su quelle che lui considera essere le disfunzioni, le “storture”  del sistema cinese. Lo scrittore Yu Hua in Cina è diventato famoso per questo.

Ora è uscito l’ultimo dei suoi libri: “Mao Zedong è arrabbiato”.

In questa sua ultima opera Yu Hua confronta la Cina d’oggi con quella del passato. E osserva che il paese non è più la Cina “pura” come lo era ai tempi di Mao Zedong. Adesso la corruzione dilaga, l’inquinamento è arrivato ad un punto ormai di non ritorno, il presidente cinese Xi accentra tutto il potere nelle sue mani e non rimane più spazio per il dissenso, aumentano gli aborti clandestini e le demolizioni forzate delle case, il patriottismo è sparito lasciando il posto alla sete di denaro, e non ultimo, tipico della cultura locale, lo scrittore denuncia che i cinesi non riescono più a comprarsi le proprie tombe. La conclusione di Yu Hua è eclatante: “Se Mao Zedong sapesse cos’è diventata la sua Cina, sarebbe talmente arrabbiato che chiederebbe lui per primo di tirare via il suo ritratto da piazza Tian’anmen”.

Lo scrittore è convinto di vivere nel comunismo. E soffre intensamente nel vedere e descrivere le “storture” della “sua” Cina. Vorrebbe che ritornassero i bei tempi, vorrebbe che ritornassero i veri “comunisti” al governo e che il loro comportamento fosse conseguente, come ritiene avessero nel passato. 

Oggigiorno in Cina sempre più persone dubitano, a differenza di Yu Hua, che esisti ancora il “comunismo”. Noi marxisti invece siamo sempre stati certi che in Cina non esiste e non è mai esistito il “comunismo”. Non è mai esistito già dall’inizio della rivoluzione di Mao. Rivoluzione che noi comunisti fin dall’inizio abbiamo sempre definito essere stata “democratico borghese contadina”. Ma assolutamente non “comunista”.  

Ecco come i marxisti di “Lotta Comunista” analizzavano la situazione cinese nel ’67: “Dove va la Cina? … gli attuali avvenimenti cinesi confermano l’analisi marxista fatta da tempo sul corso della rivoluzione borghese in Cina”, per poi proseguire: “Il maoismo, ridotto alla sua essenza, non è altro che l’ideologia dello sviluppo capitalistico nelle condizioni particolari della Cina”. Chiaramente nessuna dichiarazione marxista di rivoluzione proletaria in Cina.

Perché lo scopo della rivoluzione che Mao Ze Dong e il suo partito hanno condotto in Cina, anche se si definivano “comunisti”, non era arrivare al comunismo con la suddivisione dei beni e l’eliminazione della compra-vendita e quindi del profitto, com’è nella società comunista, ma di liberare i contadini dell’immensa nazione cinese dal latifondismo dei grandi proprietari terrieri per portarli, con una suddivisione delle terre impostata sulle cooperative, in una economia borghese moderna. In altre parole, con la rivoluzione i contadini cinesi ora diventati possessori delle terre, possono coltivarle per conto proprio, vendendo e commerciando liberamente i propri prodotti per ricavarne un profitto. Una situazione esatta come in un’altra normale economia borghese. Certamente un passo in avanti storico notevole per la nazione, ma non “comunista”, come si voleva far credere.  

Praticamente Mao e il suo partito hanno iniziato nell’enorme mercato cinese una fase di sviluppo capitalistico ponendo le basi per uno sviluppo industriale, che poi è avvenuto e che oggi è realtà.

Si può invece sottolineare che la caratteristica dello sviluppo del capitalismo statale cinese è stata molto particolare. Nel senso che essendo la rivoluzione borghese in Cina condotta da un partito di stampo stalinista nazionalista che si definiva falsamente “comunista”, tutti gli elementi dello sviluppo, fin dall’inizio, sono stati accompagnati dai connotati sociali e folcloristici dall’imbroglio del finto socialismo. Cioè, ogni evento veniva festeggiato e salutato come sviluppo e vittoria del “socialismo” o “comunismo”. Con questa particolarità (o meglio, imbroglio) le masse contadine e proletarie potevano essere facilmente coinvolte nello sviluppo borghese con il minimo di proteste e il massimo sfruttamento.

E le “storture”, le “contraddizioni” che Yu Hua adesso con dolore descrive, confermano che il sistema cinese non è altro che capitalista. Niente di più e niente di meno, essendo che tutto il paese ruota, com’è evidente, attorno al profitto.

Yu Hua accentuando nei suoi libri le critiche sogna e incoraggia un ritorno al passato. E’ una chiara utopia. E’ come sperare che l’Europa ritornasse al Rinascimento o l’America al Far West. Anche Yu Hua si dovrà rassegnare alle contraddizioni del sistema borghese. Anzi si accorgerà che le contraddizioni si accentueranno con lo sviluppo imperialista della potente borghesia statale cinese che guida il paese.

Se Yu vuole una società migliore, diversa, dovrà modificare completamente i suoi concetti politici. Dovrà assumere quelli marxisti. Quelli veri però, non quelli nazionalisti stalinisti dell’establishment statale cinese. Dovrà studiarsi che cos’è il vero comunismo e come organizzarsi per raggiungere la vera e diversa società superiore.

 

 


 

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-SCONTRO TRA BORGHESIE-

PAURA DELLA CINA

L’INARRESTABILE SVILUPPO DEL COLOSSO ASIATICO METTE PAURA IN OCCIDENTE.

 

Obama aveva cercato di isolare economicamente e politicamente la Cina attraverso accordi internazionali come il NAFTA, TPP, TTIP. Trump invece l’attacca direttamente. Dichiara la Cina apertamente primo pericolo per gli USA (assieme alla Russia), alza i dazi contro le merci cinesi, aumenta enormemente la spesa militare USA e spinge anche gli alleati NATO ad armarsi.  

                                                                                                                                                                                                                                (traduzione da "Der kommunistische Kampf" - luglio  2018)

 

 

 

Senza dubbio l’imperialismo cinese è destinato a diventare la prima potenza al mondo. Con un incremento medio del PIL annuo del 6-7% come l’attuale, in 10 anni la Cina raddoppierà la sua potenza economica. In pratica avrà un’economia pari a quella Usa e metà di quella europea messe assieme. Sarà la super potenza economica mondiale.   

E’ ovvio che la prospettiva mette in fibrillazione tutte le borghesie occidentali.

Se fino ad un anno fa la Cina veniva vista dalle imprenditorie industrializzate come una nazione normale e il mercato cinese era un’opportunità di investimento per lucrosi guadagni, da quando all’inizio dell’anno il presidente Xi Jinping ha dichiarato ufficialmente che la Cina aspira a diventare la potenza trainante del pianeta, non solo economicamente, ma anche militarmente, da allora gli allarmismi sono schizzati alle stelle.  Il dragone cinese adesso mette paura.

E così da grande opportunità di guadagno per finanza e industrie si è passati oggi alle dure critiche e ai forti attacchi mediatici.

Il governo cinese, pur definendosi “comunista“, è chiaro che non ha niente a che fare con il socialismo. “E’ un governo borghese capitalistico, nella forma del ‘capitalismo di Stato” - affermano già dagli anni ‘50 i marxisti. E naturalmente la Cina da capitalista qual è si comporta come tutti gli imperialisti: cerca l’espansione nel mondo alla ricerca di profitti.  

Per far fruttare i suoi capitali esteri il governo borghese di Pechino ha elaborato la politica chiamata “La nuova via della Seta”. Naturalmente l’evento ha messo in allarme i capitalisti di tutto il mondo. La nuova politica estera oltre che prevedere consistenti investimenti di capitali in Asia, Medio Oriente e Est Europa, si allarga fino all’Africa. Qui l’imperialismo cinese sembra essere particolarmente attivo. 

Ma questa è la zona che gli europei considerano come un proprio “giardino di casa”. Qui perciò i cinesi sono particolarmente malvisti. E di conseguenza diventa un fattore di ulteriore allarme. 

Al riguardo, il giornale “Il Fatto Quotidiano” nell’articolo del 29 maggio: “Africa, ‘prestiti e sovvenzioni dalla Cina’: possibile inclusione dello yuan nelle riserve valutarie di 14 Paesi” descrive con preoccupazione l’evolversi della questione. Dover aver rilevato con stupore che la Cina dal 2009 ha sorpassato gli Stati Uniti come primo partner commerciale nella zona, riporta: “Negli ultimi anni Pechino ha partecipato finanziariamente – in maniera parziale o totale – a tre dei progetti infrastrutturali più importanti dell’Africa orientale: la diga della Grande Rinascita in Etiopia (4,1 miliardi); la ferrovia Mombasa-Nairobi(3,8 miliardi); e l’impianto idroelettrico di Karuma in Uganda (2,2 miliardi)”.Prosegue poi: “La maggior parte dei paesi della regione Memfi ha ricevuto prestiti o sovvenzioni dalla Cina e pertanto sarebbe solo economicamente più conveniente ripagare in renminbi … abbracciare lo yuan cinese, diventato ormai quello che potremmo definire una ‘moneta comune’ nel commercio con l’Africa”. In pratica spiega il giornale, molti paesi africani che hanno un alto tasso di commercio con la Cina vedono più conveniente ora trattare il traffico commerciale con Pechino non più in dollari o euro, ma in renminbi, cioè in yuan cinese. Un passaggio ed evento di non poco conto quindi. Ma ciò che maggiormente preoccupa “il Fatto Quotidiano” è che l’assertività economica del gigante asiatico si è tradotta in un presenzialismo politico e militare”. In pratica i cinesi sono partiti nella zona con investimenti economici e finanziari, per poi insediarsi politicamente e militarmente (come del resto fan tutte le borghesie, anche questo il giornale lo dovrebbe rivelare). 

Il quotidiano “Die Zeit” invece, nel suo articolo del 22 maggio “Cina: l’obiettivo è il mondo”  affronta il lato ipocrita dell’espansionismo cinese. E’ il presidente cinese Xi Jinping che viene insinuato come falso e infido e perciò per questo molto pericoloso. Argomenta l’articolo che, mentre Xi richiede agli occidentali -“un nuovo ‘modello dei rapporti tra le grandi potenze’ e pretenderispetto per gli interessi fondamentali della Cina”-  dall’altra tiene sottomesso il Tibet, pretende la sovranità su Taiwan e sulle isole del mare del sud cinese. Continua Die Zeit”:  ”Armonia e Rispetto Xi lo intende come diritto, vale a dire: approvazione del suo concetto politico, dei suoi obiettivi, dei suoi metodi. Ma anche altre nazioni hanno i loro interessi fondamentali che sono da rispettare, ma lui questo non lo vuole ricordare. Allo stesso modo nasconde che anche altri esigono altrettanto rispetto al diritto alla loro sovranità”. L’imperialismo cinese si fa bello al mondo affermando il rispetto per i suoi diritti, per le sue esigenze, contemporaneamente però cinicamente calpesta i diritti di altre nazioni come Tibet, Taiwan e isole del mare del sud cinese.

Nel sistema capitalistico, affermiamo noi, nei rapporti controversi tra borghesie i “diritti” da rispettare non esistono. Esistono solo i crudi “rapporti di forza”. Chi è più forte può far valere ‘con la forza’ i propri ‘diritti’, chi è debole soccombe. L’imperialismo cinese formalmente “rivendica” i suoi ‘diritti’ nel mondo, in realtà li sta imponendo alle borghesie concorrenti con tutta la forza economica, politica, militare, che possiede.


 

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-SCONTRO TRA BORGHESIE-

CINA E PAESI BRICS ESIGONO:

IL POSTO CHE ASPETTA LORO NEL MONDO

          (traduzione da "Der kommunistische Kampf" - maggio  2018)

 

 

 

 

Il presidente cinese Xi Jinping non perde occasione nei vertici nazionali e internazionali per decantare lo sviluppo, i successi, la grandezza della Cina e di conseguenza esigerne lo spazio politico che le aspetta nel mondo.

La Cina è diventata un colosso economico. Si è evoluta a potenza imperialista. E come tale, come tutte le potenze imperialiste emergenti (come nel passato Germania, Giappone, Stati Uniti) comincia a sgomitare per cercare maggiore ruolo e dominio sul pianeta per la realizzazione del profitto. Sgomitare nel mondo significa inevitabilmente urtare gli interessi degli imperialismi concorrenti già esistenti. E porsi in un gioco di scontro. I vertici cinesi questo lo sanno.

In marzo, a Pechino, nel discorso di chiusura all’Assemblea nazionale del Popolo che lo ha rieletto per la seconda volta presidente, Xi Jinping ha elencato le diverse fasi economiche che il gigante asiatico ha dovuto attraversare nel suo sviluppo, definendole “un miracolo dopo l’altro”.  L’Assemblea del Popolo è stata anche l’occasione per riaffermare e ribadire il prossimo obiettivo, il prossimo “miracolo” cinese: “entro il 2035 dovrebbe portare il dragone nella modernità compiuta, a livelli di benessere comparabili a quelli degli Stati Uniti” (Repubblica – 20 marzo 2018). Ma, spiega Xi, per ottenere questo successivo “miracolo” il paese [ cioè, l’imperialismo cinese] ha bisogno chiaramente di più spazio nel globo, perciò rivendica ed esige “il posto che alla Cina spetta nel mondo”. Ovviamente, com’è prassi, “il posto che spetta” si afferma volerlo raggiungere con metodi “pacifici” e senza “cercare espansioni o egemonia” verso le altre nazioni. Però, precisa Xi, se fosse necessario “siamo decisi a portare anche battaglie sanguinose contro i nostri nemici” (Die Zeit - 20 marzo 2018). 

Sono frasi che l’umanità conosce molto bene nello scontro tra imperialismi: ipocrisie su dichiarazioni di pace, ma concrete attuazioni pratiche con interventi militari e disastri senza limiti.  

Possiamo addirittura già registrare oggi, a pochissimi mesi dalle solenni dichiarazioni pronunciate al congresso cinese di marzo, che il governo imperialista del dragone ha già modificato alcune sue affermazioni di non aggressività. Ci riferiamo agli intenti del primo ministro cinese Li Keqiang, che in chiusura dell’importate riunione aveva affermato: “Non è nostra intenzione avere un surplus o una guerra commerciale con gli Stati Uniti” e poi aggiunto“ridurremo le tasse sulle importazioni straniere” (Repubblica –ibidem), ma che oggi invece, come risposta ai dazi Usa, si assiste altrettanto da parte di Pechino, al forte aumento dei dazi su merci importate dall’America.

VERTICE BRICS a XIAMEN – sett. 2017

(BRICS:  Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa)

Vertice di Xiamen: il brasiliano Michel Temer, il russo Vladimir Putin, Il cinese Xi Jinping, il sudafricano Jacob Zuma e l'indiano Narendra Modi (Lapresse)
Vertice di Xiamen: il brasiliano Michel Temer, il russo Vladimir Putin, Il cinese Xi Jinping, il sudafricano Jacob Zuma e l'indiano Narendra Modi (Lapresse)

 

Le dichiarazioni e le intenzioni del presidente cinese di marzo riprendono in realtà e perseguono la politica e gli obbiettivi di quanto dichiarato dai presidenti dei paesi BRICS al vertice di settembre 2017 a Xiamen in Cina.   I giornali internazionali hanno parlato molto dell’evento e alle dichiarazioni dei partecipanti: “Brics, via al vertice. Cina e India si candidano a guidare la globalizzazione” titola il giornale “Il Messaggero” il 2 sett. 2017. Altre giornali riportano i punti salienti del discorso di apertura del presidente cinese, ossia che i paesi Brics auspicano ad “una partnership più forte per un futuro più brillante”, vogliono un “ordine mondiale più giusto”, affermano che “dobbiamo lavorare assieme per affrontare le sfide globali” ed si esige di “contare di più nelle istituzioni internazionali”. Sono dichiarazioni e sfide lanciate, senza mai menzionarli, a Stati Uniti e paesi europei, che attualmente dominano l’ordine mondiale. Sfide e affermazioni che non sono rimaste semplici parole, ma che nei primi mesi di quest’anno hanno visto il suo primo passaggio a fatti concreti.

Ci riferiamo, com’è noto, al 26 marzo, dove gli imperialismi cinese e russo hanno lanciato sul mercato internazionale il petro-yuan, una valuta commerciale cinese con l’intenzione dichiarata di sostituire i petro-dollari nel pagamento del petrolio grezzo, competendo e sfidando apertamente Washington. Una provocazione senza precedenti e inaccettabile agli occhi Usa.

La reazione dell’Amministrazione Trump è stata subito immediata e decisa: alzata considerevole dei dazi doganali sull’import cinese per il valore di parecchie centinaia di miliardi di dollari; attacco missilistico contro la Siria come avvertimento alla Russia.

La controrisposta cinese non si è fatta però attendere, a sua volta alzando, come detto, i dazi sulle importazioni americane.  

Una nuova e feroce lotta tra due schieramenti imperialisti è perciò cominciata.  E’ cominciata … ma nessuno sa a che sviluppi potrà arrivare. 


 

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SCONTRO TRA BORGHESIE – UNO SGUARDO NEL FUTURO

PETRO-YUAN CINESE CONTRO PETRO-DOLLARI,

UNA BOMBA NELLO SCENARIO INTERNAZIONALE ! 

 

Da marzo  Cina, Russia, Iran, Venezuela, Corea del Nord e Pakistan (e altri paesi sono pronti a seguirli) usano nei loro scambi reciproci non più il dollaro, ma lo Yuan cinese. In pratica inizia quella che viene definita la “de-dollarizzazione”.

COME REAGIRA’ L’IMPERIALISMO AMERICANO?

 

“Tutte le popolazioni del MENA (Medio Oriente-Nord Africa) hanno capito cosa successe quando l’Iraq di Saddam Hussein decise di vendere petrolio in euro, o cosa successe quando Muammar Gheddafi progettò di emettere un dinaro d’oro pan-africano”.

                                                                                                                 Pepe Escobar  “LA BOMBA DEL PETRO-YUAN” (in comedonchisciotte.org29 dic 2017 

 

L’IMPERIALISMO CINESE PENSA DI POTER IMPORRE AGLI USA IL PETRO-YUAN, USANDO COME FORMA DI RICATTO A EVENTUALI REAZIONI, LA QUOTA CONSISTENTE DI

     DEBITO PUBBLICO AMERICANO CHE DETIENE E LE ALTISSIME RISERVE IN DOLLARI CHE HA NELLE SUE BANCHE, CHE SE NECESSARIO, IN CASO DI REAZIONE DELLA                  POTENTE BORGHESIA DI WASHINGTON, PUO’ RIVERSARE SUL MERCATO INTERNAZIONALE CAUSANDO UNA SPECIE DI BANCAROTTA USA.                                          

 

                  marzo 2018                                                                                                (traduzione da "Der kommunistische Kampf" - aprile 2018)

 

 

 

Cose di non poco conto si stanno accumulando nel mondo nello scontro tra borghesie, cose che sconvolgeranno il prossimo futuro con conseguenze del tutto imprevedibili, probabilmente anche militari.  

Stranamente però fatti così sensazionali nei rapporti mondiali stanno passando quasi sotto silenzio dai mezzi di informazione di massa. Molti analisti si chiedono il perché: “L’inizio del crollo del dollaro sembra un evento così impossibile?”  oppure … “Viene taciuto di proposito?” Comunque sia, le riviste finanziarie ed economiche specializzate occidentali sono super allarmate di un tale cambiamento. Per chi leggerà per intero gli articoli qui sotto citati troverà una marea di dettagli interessanti. Noi, costretti da comprensibili ragioni di spazio, ne riportiamo i tratti essenziali.

L’articolo soprariportato, “La Cina suona, con l’introduzione del ‘Petro-Yuan’, la campana da morto al dominio globale del dollaro”, dopo aver sottolineato che con l’introduzione del Petro-Yuan è iniziato il declino del dominio del dollaro americano, pone l’accento sul fatto che la vera forza della moneta cinese è la sua convertibilità in oro. In pratica un paese che vende il suo petrolio alla Cina e riceve in cambio Yuan, può, se lo vuole, convertire la valuta Yuan in oro. Questo da un peso notevole allo Yuan stesso, in quanto se un affarista vuole proteggersi dalle speculazioni sulla valuta, può ripararsi comprando oro nelle borse di Hong Kong e Shanghai, di cui le banche cinesi è noto esserne strapiene.

Altro punto importante riportato, è che nazioni come Russia, Iran, Venezuela, Corea del Nord, aderendo al nuovo Petro-Yuan hanno adesso la possibilità di aggirare, di neutralizzare, le sanzioni che Usa e europei hanno loro imposto. Gli analisti, anche se scettici sull’effettiva riuscita della manovra cinese di escludere il dollaro dalle loro transazioni, intravedono però in questa iniziativa cinese l’inizio della futura decadenza del dominio del dollaro e degli Usa.

Alla fine l’articolo, riporta la citazione di Putin dopo il vertice dei BRICS in settembre a Xiamen in Cina di pieno appoggio all’operazione Petro-Yuan: “La Russia condivide le preoccupazioni dei paesi BRICS sull’ingiustizia dell’architettura dell’economia e della finanza globale, che non tiene in considerazione il peso crescente dei paesi emergenti. Siamo pronti alla collaborazione con i nostri partner per accelerare una riforma delle regole internazionali nell’ambito della finanza, per superare un’eccessiva dominanza che pone il limite alle riserve di valuta.”  In altre parole Putin sostiene che è giunto il momento che i paesi emergenti (Cina, India, Russia, ecc) sostituiscano nelle reciproche transazioni commerciali, il dollaro con le proprie monete.  

Questo secondo articolo “Il Petro-Yuan sposterà il dollaro Usa dal trono delle riserve mondiali?” dopo aver sottolineato che i paesi occidentali per il momento hanno deciso di ignorare una NOTIZIA BOMBA di questa portata e come gli investitori internazionali saranno fortemente attratti dal nuovo Petro-Yuan, si sofferma sul fatto che l’operazione Petro-Yuan non è un’iniziativa fine a se stessa, ma “una promozione di largo respiro nell’agenda di Pechino”.  Si intende che, se da una parte l’imperialismo cinese si propone a livello globale di sostituire con lo Yuan il $ americano nel commercio internazionale del petrolio, dall’altra l’operazione è “parte integrante della strategia One Belt One Road” [La nuova via della Seta] con l’obbiettivo di inserirsi pienamente “nel continente asiatico, Medio Oriente compreso”. Per questo motivo gli analisti “valutano che le riserve di Renminbi [Yuan] dovrebbero espandersi velocemente e massicciamente nelle banche centrali”.

Anche questo articolo tedesco è del parere, come il brasiliano  Pepe Escobar, che “il presidente cinese non si lascerà sgombrare [sopraffare] allo stesso modo come successo a Saddam Hussein in Iraq che voleva vendere il petrolio in euro, o come Gheddafi in Libia che voleva introdurre il dinaro d’oro”. In altre parole, l’imperialismo cinese non sarà disposto a sottomettersi a fronte di una eventuale reazione americana, ma reagirà.

Infine anche questo testo rileva che “i BRICS hanno dato il loro benestare al Petro-Yuan nel loro recente incontro a Xiamen”, vale a dire che anche l’India ne è favorevole.

In questo articolo La Bomba del Petro-Yuan”, veramente interessanti sono le riflessioni riportate al tema dal giornalista brasiliano Pepe Escobar. Anche lui vede nell’evento eccezionale il “fatto che si sta implementando una nuova ed enorme zona che usa riserve alternative al dollaro Usa, bypassandolo”, e riporta che “Mosca sta lanciando la sua prima vendita di obbligazioni governative per un miliardo di dollari, denominata in Yuan. Mosca del resto ha messo ben in chiaro il suo impegno in una strategia a lungo termine che prevede la dismissione dell’uso del $ Usa come valuta principale nel commercio globale, posizionandosi a fianco di Pechino verso quello che potrebbe essere definito UN SISTEMA DI SCAMBIO POST BRETTON-WOODS.” . Quindi un evento eccezionale, di non poco conto nello scontro tra borghesie.

Anche Escobar, come gli altri specialisti, sottolinea il fatto basilare della convertibilità in oro dello Yuan per la riuscita dell’operazione, come elemento “essenziale in questa strategia”, in quanto garanzia di sicurezza per gli investitori internazionali.   

Escobar vede nel futuro uno Yuan, che nell’interesse cinese-russo, dovrà sostituire il $ per creare “un’enorme zona” euroasiatica sotto influenza cino-russa. UN CABIAMENTO EPOCALE, se questo riuscirà. Il tutto, nell’intenzione della borghesia cinese, attraverso il piano strategico del ‘One Belt One Road’. Escobar descrive minuziosamente in questo articolo l’ambizioso programma cinese della famosa ‘Nuova Via della Seta’:  Nel 2018, saranno messi a punto sei importanti progetti della BRI [Belt & Road Initiative-n.d.r] : la ferrovia ad alta velocità Jakarta-Bandung, la ferrovia Cina-Laos, la ferrovia Addis Abeba-Gibuti, la ferrovia Ungheria-Serbia, il progetto Melaka Gateway in Malesia e il potenziamento del porto di Gwadar in Pakistan. La HSBC [colosso bancario europeo –n.d.r] stima che la BRI nel suo complesso,  con la propria attività  genererà ogni anno non meno di 2,5 trilioni di dollari di valore addizionale.  È importante tenere a mente che la “Belt” nella BRI dovrebbe essere vista come una serie di corridoi che collegano la Cina orientale con le regioni ricche di gas o petrolio dell’Asia centrale e del Medio Oriente, mentre le “roads” presto serviranno a far arrivare l’oro scavato nelle miniere dalle regioni che le attraversano, grazie alle ferrovie ad alta velocità”.  Si può senz’altro aggiungere che non solo le infrastrutture sopramenzionate saranno “corridoi” per far giungere elementi energetici e oro all’imperialismo cinese, ma saranno anche i “corridoi” necessari sui cui far scorrere la vendita di industrie e grandi impianti da parte cinese verso i paesi asiatici citati in fase di forte sviluppo.

Di fronte a tutto ciò, l’imperialismo americano starà a guardare?

Escobar vede come prima contromossa Usa al Petro-Yuan la NSS (National Security Strategy) il documento governativo approvato dal congresso Usa in dicembre. Così Escobar: ”La NSS promette da parte sua di preservare “la pace con la forza”. Dato che Washington attualmente dispiega non meno di 291.000 soldati in 183 paesi e, nel solo 2017, ha inviato Operazioni speciali in non meno di 149 nazioni, è difficile sostenere che gli Stati Uniti siano un paese in “pace”, specialmente se la NSS cerca di canalizzare ancora più soldi verso il complesso industriale-militare”.

Ma Mauro Bottarelli nell’articolo del 27 ott. 2017: Fra 2 mesi la Cina lancerà il petro-yuan e gli Usa dovranno reagire: ecco l’unica notizia che conta” è ancora più esplicito sulle possibili reazioni americane:

“Possono gli Stati Uniti, intesi come complesso bellico-industriale di riferimento, accettare una sconfitta epocale simile? No!”    è la sua conclusione.

E prosegue: “E questo spiega sia l’attacco alla Clinton e a tutto il vecchio entourage democratico – compreso, per ora solo in parte, Barack Obama – da parte del Washington Post per i due vecchi scandali, e sia il silenzioso allargamento della fronda congressuale contro Donald Trump: dopo John McCain, ora è infatti il turno di Bob Corker, autorevole presidente della Commissione esteri e Jeff Flake di attaccare a palle infuocate il presidente, ritenuto “inadatto” a guidare la nazione e reo proprio di aver minato la leadership USA nel mondo”.

ROTTA DI  COLLISIONE:  enormi cambiamenti con conseguenze imprevedibili sono alla porta.. Esiste un mondo in movimento, da studiare, analizzare e descrivere, su cui poi doversi rapportare. L’introduzione del Petro-Yuan e la conseguente de-dollarizzazione non sono eventi da sottovalutare o ignorare. Se proseguiranno segneranno l’instabile futuro dello scontro tra capitalisti.

 


 

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19° CONGRESSO DEL PARTITO “COMUNISTA” CINESE

 

RIAMMODERNAMENTO ECONOMICO

E FORTE RIARMO PER L’IMPERIALISMO CINESE,

PER UN FUTURO DI SFIDE

LA BORGHESIA INDUSTRIAL-STATALE AL GOVERNO IN CINA SI PREPARA PER I PROSSIMI SCONTRI

 

 traduzione da "Der kommunistische Kampf" - gennaio  2018

 

 

Il 19° Congresso del cosiddetto “Partito Comunista Cinese” (PCC) lascerà certamente un segno nella storia cinese. E non solo in Cina.

Nella sessione i suoi esponenti guidati dal presidente Xi Jinping hanno ufficializzato il cambio di rotta della politica del dragone: sarà “Il socialismo che imprimerà una nuova era”. Viene così abbandonata definitivamente la politica del cosiddetto “basso profilo”, cioè del “tao wang yang hui” 韬光养晦 (nascondi la luce, nutri il buio) fin qui perseguita, adottata a metà anni ’90 da Deng Xiaoping, “basso profilo politico” tenuto per non allarmare i concorrenti. 

Xi, a nome del congresso ha esposto sia il prossimo piano quinquennale che la politica dei prossimi 25 anni, con un’estensione ai 35. Un vero evento.

“Xi mette sull’avviso il suo partito  di fronte a ‘sfide serie.”  titola Der Spiegel il 18 ottobre. “…Mentre gli Usa si chiudono dietro la politica ‘America First’ del presidente Trump, Xi si è presentato come difensore della globalizzazione” prosegue il giornale. Precisa poi il quotidiano “Die Zeit” il 24 ott.: “Per la realizzazione del ‘Sogno cinese’ [Xi Jinping] mira ad una Cina forte sul piano economico e militare con un ruolo potente nel mondo”. Per ottenere questo, prosegue Die Zeit “… come previsto, il partito ha deliberato nel Rapporto della Commissione di Disciplina la sua lotta contro la corruzione, molto popolare tra la gente. Con questa misura Xi Jinping procede non solo contro la corruzione nel partito, ma anche contro i rivali, assicurandosi così la lealtà”. 

L’industria cinese ha vissuto 40anni di fortissimo sviluppo. Dopo 40anni il paese si trova completamente trasformato. Il livello di vita si è notevolmente alzato ed enormi gruppi industrial-

finanziari capitalisti si sono formati primeggiando nel mondo. Adesso è il momento del salto successivo, del pieno passaggio alla fase imperialista.   

Come successo prima in Germania, Francia, Italia, Giappone, dopo i primi decenni di forte sviluppo seguenti il dopoguerra, oggi anche in Cina si è creata una situazione dove la vendita dei prodotti diventa per banche e impresari non più conveniente nel proprio mercato interno per far rendere i grandi capitali accumulati nella nazione (ottenuti naturalmente sullo sfruttamento dei lavoratori). Per continuare ad assicurarsi un buon profitto adesso hanno bisogno di vendere massicciamente all’estero. Ma in questa nuova situazione, come già accaduto prima per le nazioni avanzate occidentali, per essere competitivi, una parte dell’economia deve essere rinnovata, ristrutturata. Vale a dire che le industrie a bassa tecnologia che adesso producono in Cina, cioè i settori del vestiario, mobili, elettrodomestici, ecc. si devono trasformare in industrie che producono alta tecnologia, come impianti completi per industrie, centrali elettriche, treni e impianti ferroviari, aeroporti e aerei, (non ultimo, armamenti specializzati come navi, aerei, ecc.).  Perché è questo adesso che i paesi in via di sviluppo nel mondo richiedono, e solo la vendita di questa alta tecnologia può garantire ora ai capitalisti cinesi  ottimi guadagni.   

Ed ecco la prima grande “sfida seria” di “innovazione tecnologica” a cui si riferisce Xi.

Poi “il completo riarmo cinese” per “un ruolo potente nel mondo” è l’altra “sfida seria” a cui il presidente chiama. Per questo obbiettivo il Congresso si fissa dei tempi e prevede il completo armamento militare cinese verso il 2035. Fra 20anni la borghesia impresar-statale del dragone  deve essere così ben armata da poter sfidare militarmente senza alcun problema i forti concorrenti nel mondo. “Una forza militare è costituita per combattere” afferma risolutamente Xi Jinping.  

“Guerra e pace appartengono al sistema del profitto” affermiamo noi marxisti, “appartengono al capitalismo, si interscambiano l’un l’altro. Le guerre si eliminano solo eliminando il sistema stesso”.

E’ evidente che il PC cinese, il partito che dirige l’economia e la società cinese (dove alcuni suoi membri sono milionari)  non ha assolutamente niente a che fare con il socialismo. “La politica di stato cinese è la politica di una società organizzata secondo modi di produzione capitalistici, di un capitalismo di stato”  scrivevano i militanti internazionalisti di Lotta Comunista nell’articolo “Ne Washington ne Pechino” nel 1966. Allora bisognava essere degli specialisti per capirlo, adesso è sotto gli occhi di tutti.


 

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SCONTRO TRA BORGHESIE-

 

UNA CINA MAI STATA SOCIALISTA, MA SEMPRE CAPITALISTA

CINA:“LA NUOVA VIA DELLA SETA”

 

IIL NOME CHE LA BORGHESIA IMPRENDITORIALE  DI STATO CINESE HA DATO ALLA SUA POLITICA ESTERA.

 

L’IMPERIALISMO CINESE NON E’ ANCORA PRONTO PER SFIDARE APERTAMENTE L’IMPERIALISMO AMERICANO, PERCIO’ CON

"LA NUOVA VIA DELLA SETA"  CERCA L’ESPANSIONE ESTERA  APPOGGIANDOSI ALLE BORGHESIE EUROPEE COSI’ DA NEUTRALIZZARE LE REAZIONI AMERICANE.

 

                                                                   traduzione da "Der kommunistische Kampf" - novembre 2017

 

(quelle: Infografik Die Welt)
(quelle: Infografik Die Welt)

 

 

E’ ovvio che il management dirigenziale cinese non ha niente a che spartire con il comunismo. Ed è altrettanto ovvio che il camuffamento da “comunisti” serve solo per estorcere più plusvalore ai lavoratori.

Con “La nuova via della seta” l’imperialismo del dragone avvia il suo nuovo corso di politica estera per potersi espandere nei mercati in nuove zone di influenza dove esportare le sue eccedenze di capitale finanziario e trarre un lauto profitto. Non può farne a meno. Essendo però una giovane borghesia emergente, se vuole arraffare nuove zone, come succede in queste situazioni di scontro tra predoni imperialisti, deve sfidare le attuali potenze borghesi dominanti. Questo di solito provoca lo scontro.

Questo, il problema di un “possibile conflitto”, all’establishment borghese di Pechino sembra però essere molto chiaro, avendo studiato le vicende del passato dove l’ascesa di borghesie come quella tedesca o nipponica ha avuto un percorso bellico. L’intenzione del management cinese è, per quanto possibile, evitarlo, come spiega Chen Shi Lei dell’agenzia di stampa “Xinhua”: “Nella storia l’ascesa di nazioni potenti  [Germania, Giappone, n.d.r] si è realizzata attraverso l’espansione e l’aggressione, ma oggi l’ascesa della Cina è un’eccezione pacifica”.

Infatti nei decenni trascorsi di forte crescita economica, la politica estera cinese definita “di basso profilo”, cioè di restare nell’ombra, era la traduzione pratica di questa ascesa di “eccezione pacifica” come politica di non urtare le attuali potenze dominanti nei loro interessi. Un “eccezione”, appunto. 

Ma oggi, avendo raggiunto un considerevole peso economico (la Cina è la seconda potenza mondiale a ridosso a quella americana) e avendo un forte eccesso di capitale finanziario (ricavato naturalmente dal forte sfruttamento dei lavoratori) da investire all’estero, il “basso profilo” del passato non è più impossibile, è costretta ad uscire allo scoperto e adottare politiche di investimento estero  ufficiali, chiare.

La conseguenza diventa perciò porsi in una situazione ad alto rischio di urto contro gli imperialismi  concorrenti. Con ”l’eccezione pacifica” che Chen Shilei sottolinea, possiamo anche interpretare nelle parole non dette, che la borghesia cinese non si sente ancora pronta per uno scontro diretto frontale. Chen fa capire che Pechino, in sostanza, ritiene non essere ancora così forte da uscire vincitore da un eventuale reazione occidentale con conflitto militare. Di conseguenza “La nuova via della seta” è l’escamotage politico per cercare una possibile espansione imperialista in intesa con i concorrenti.    

Come si traduce nella pratica tutto questo? Attraverso Meeting internazionali, Convention, incontri più a meno segreti, il governo di Pechino, sta offrendo alle potenze occidentali come Europa, Giappone, ma anche agli Stati Uniti, investimenti congiunti assieme all’estero, in zone in forte sviluppo come Africa, Sud America, Area del Golfo e Asia. All’offerta cinese le varie imprenditorie internazionali stanno rispondendo con entusiasmo pregustando i forti guadagni che ne deriveranno. Le fonti specializzate parlano di “grande successo” dell’iniziativa di Pechino. Una mossa quindi studiata molto bene da parte cinese. Ecco come la presenta la Wang Wen, rettore esecutivo dell’istituto Chongyang, sul giornale Global Time, riferendosi al lavoro del suo istituto: “La Cina è pronta a tutto ora. Ha moti Think Tank [serbatoi di pensiero ndr]. Noi pensiamo per il nostro governo e prepariamo ogni possibilità. E la nostra politica estera è molto efficace”.  

Sarà certamente molto efficace nello scacchiere del gioco borghese, ma è sempre una politica che si muove nelle acque tempestose della concorrenza imperialistica, dove da un momento all’altro tutto potrebbe succedere. Vedremo effettivamente come l’imperialismo americano reagirà a fronte di questo importante movimento politico. Anche l’idea cinese di mettere in programma la costruzione di altre 5 o 6 portaerei oltre alle 2 in possesso (gli americani ne hanno 10 in attività e 3 in costruzione) butta benzina sul fuoco. E’ un aumento considerevole di armamento che potrebbe seriamente impensierire le potenze occidentali, oltre a quelle regionali asiatiche che temono una Cina egemone.

L’instabile e scostante politica estera del nuovo presidente Trump inoltre sta aiutando inconsapevolmente non poco i cinesi. Poiché la polemica tra Europa e L’Amministrazione americana sul “Clima” e su ”l’accoglienza immigrati” sta dando la possibilità a Pechino di inserirsi tra i due e appoggiare i governi europei nella controversia contro Washington, incoraggiandoli. L’effetto è una presa di distanza tra Usa e Europa e un avvicinamento tra Europa e Cina. Quello che i cinesi stanno cercando, così da ottenere un appoggio europeo all’espansionismo della “Via della seta”.    

E’ nella consapevolezza marxiana che la società è in movimento perpetuo, senza sosta. Già negli anni ‘50 gli attivisti leninisti scrivevano che le nazioni asiatiche, tra cui la Cina di Mao capitalista, allora da tutti acclamata come “faro del comunismo”, e che allora non aveva nessun peso sul piano mondiale, ne economico ne politico, si sarebbero sviluppate capitalisticamente fino a diventare le maggiori potenze mondiali. Allora nessuno dava retta a queste tesi e forse qualcuno anche se la rideva.  Oggi questo sta diventando realtà (e nessuno ride più).

Ed al marxismo è altrettanto chiaro che nel contesto attuale l’imperialismo americano è superallarmato per lo sviluppo accelerato del forte concorrente asiatico. E che prima o poi reagirà al nuovo corso. Adesso i grandi gruppi imperialisti capital-finanziari americani sono occupati nel gestire il “loro presidente” inesperto, ingenuo e instabile nel carattere. Ma appena risolto il problema “presidente” si ripresenteranno sulla scena mondiale più determinati e decisi che mai, come sempre.

 

E lo scontro tra borghesie briganti proseguirà, duro, senza esclusione di colpi. 

AI VERTICI di Hangzhou e Davos:

IL GOVERNO CINESE APPROFITTA DELL’ASSENZA AMERICANA

PER ASSUMERE UN RUOLO DI GUIDA MONDIALE

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LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA MODERNA

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  (foto - Reuters/ Damir Sagolj)
(foto - Reuters/ Damir Sagolj)

 

 

Da anni l’imperialismo cinese assieme ai suoi alleati BRICS rivendica più spazio sulla scena mondiale. Rivendica leggi economiche, commerciali, politiche, in seno ad organismi internazionali come il WTO o il Fondo Monetario Internazionale che non siano solo a vantaggio della vecchie borghesie occidentali, ma che favoriscano anche le nazioni emergenti.

La borghesia di stato cinese, che ama definirsi “comunista”, ha buone ragioni nella competizione interimperialista per rivendicare tali spazi, essendo l’economia cinese diventata la 2° economia mondiale (appena dietro a quella americana) e la prima commerciale.

Nei vertici economico-politici di Hangzhou in Cina di sett. 2016 e di Davos in Svizzera nel gennaio di quest’anno, gli si è offerta la possibilità, vista l’assenza del Governo americano alle prese con le elezioni e il dopo elezioni, di mettersi in primo piano.

E i giornali di tutto il mondo, in occasione dei due vertici, hanno dato enorme risalto sia al ruolo svolto dal governo cinese che è stato etichettato come l’inizio di una nuova era, sia alle dichiarazioni dei suoi vertici, dando soprattutto grande risonanza alle dichiarazioni del presidente cinese Xi Jinping.

Xi Jinping non si è fatto perdere l’occasione, visto la situazione di trovarsi al centro dell’attenzione, per esaltare la politica cinese, definita di grande successo. Ha sottolineato, riportato con grande enfasi dai giornali, l’efficacia della recente politica fiscale “flessibile” adottata da Pekino, che ha portato forti profitti all’imprese cinesi. Ha poi ribadito come il forte sviluppo economico cinese che dura da già 35 anni, avvenga in modo “armonioso”, pacifico, per il benessere del mondo intero. Ha anche riportato come in questo momento la Cina stia attraversando una grossa ristrutturazione, che alla fine porterà il paese ad essere più “moderno”.

Non si lascia perdere l’occasione per lanciare anche qualche accusa agli occidentali, quando sostiene che le enormi migrazioni provenienti dal Medio Oriente non sono causate dalla “globalizzazione”, ma da “guerre, turbolenze e conflitti regionali” (intendendo come responsabili naturalmente gli Usa, Francia, Inghilterra, ecc.).

Attacca decisamente il “protezionismo” sostenuto da Trump e ne approfitta per presentare un nuovo progetto di architettura mondiale, dove le nazioni emergenti (I BRICS per l’appunto) svolgano un ruolo  corrispondente al loro peso economico, il tutto, sostiene Xi,  permeato da pace e prosperità.

La proposta di nuovo ordine mondiale che Xi, come rappresentante di una grande borghesia emergente, in questi Meeting presenta, non è altro che il ripetersi di quello che in passato altre borghesie emergenti, che avevano bisogno di un mercato più ampio, hanno già fatto (Stati Uniti, Germania).

Come detto, Xi presenta lo sviluppo della Cina come positivo, pacifico, progressivo, ma arriverà anche per la borghesia cinese, come già accaduto alle altre borghesia emergenti nel passato, il momento di farsi spazio con i pugni e guerre.

I vertici cinesi hanno approfittato in questi due vertici dell’assenza americana. Ma adesso la nuova Amministrazione Trump è al completo e pronta per l’azione.  Come si comporterà il nuovo governo statunitense nella scena mondiale?

Adesso tutti gli occhi sono ritornati ad essere puntati di nuovo sul potente imperialismo americano.

 

 

c.p – k.k valentin


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Seguiamo l’ascesa di quella che nel futuro diventerà la 1° potenza mondiale

IL CAPITALISMO DI STATO CINESE ALLA SUA

2° RISTRUTTURAZIONE

                                                                                                                                                                                                         traduzione da "Der kommunistische Kampf" - giugno 2016

 

 

Anche l’economia a capitalismo di stato cinese (che assolutamente non è “socialista”) è sottoposta alle ferree leggi della concorrenza capitalistica, come qualsiasi altro paese.

Ed anche per la Cina è arrivato di nuovo il momento di grandi ristrutturazioni industriali. L’Assemblea del Popolo  che si è riunita ai primi di marzo per programmare il prossimo Piano Quinquennale 2016-2020 è stata concentrata per la maggior parte dei suoi lavori sui problemi economici che il governo dovrà affrontare e risolvere.

Alcuni settori dovranno, senza altri ritardi, assolutamente venir  ristrutturati.

Così riporta la situazione “Der Spiegel” del 1°e 5 marzo: “Particolarmente nell’industria dell’acciaio e del carbone c’è una notevole sovrapproduzione. A queste si devono aggiungere molte imprese che vengono mantenute in vita artificialmente con prestiti” e  prosegue: “già in questo anno [2016 ndr] verranno chiuse migliaia di imprese del carbone. Anche nell’acciaio si deve ridurre la produzione“. E il quotidiano “Corriere della Sera” del 16 marzo chiarisce ulteriormente: Nei settori del carbone e dell’acciaio l’eccesso di produzione è enorme e molte miniere e acciaierie dovranno chiudere, con licenziamenti annunciati di 1,8 milioni di lavoratori (in ultima analisi, è questa la carne da tagliare con il coltello di cui parla Li Keqiang). Sommando altri settori in crisi come il cemento, il vetro, i cantieri navali, fonti governative hanno previsto tra i 5 e i 6 milioni di licenziamenti nei prossimi due-tre anni. Ma questi numeri non sono «licenziamenti di massa», per la Cina che negli anni 90 mandò a casa 30 milioni di dipendenti di aziende statali. Li Keqiang ha ricordato che la Cina ha creato l’anno scorso 13 milioni di posti d lavoro nelle sue città”. 

In altre parole il licenziamento di questi 5-6 milioni di lavoratori non viene visto dal presidente cinese come un così grosso problema, visto che in Cina solo l’anno scorso sono stati creati 13 milioni di nuovi posti di lavoro. 

Per sostenere questo piano quinquennale di ristrutturazione il governo della borghesia cinese ha messo a disposizione “14 miliardi di euro”, che dovranno servire anche per gli ammortizzatori sociali per agevolare il “ricollocamento” dei lavoratori licenziati.

Per avere un’idea delle proporzioni gigantesche di quello che sta succedendo, è utile illustrare l’obbiettivo che la borghesia di stato cinese con questo piano quinquennale si propone di raggiungere: nel 2020 il Pil cinese dovrebbe essere 3,8 trilioni di dollari più grande che nel 2015, cioè aggiungere un valore uguale all’intero Pil della Germania” (Corriere della Sera -ibidem). Cifre enormi per una borghesia che è “la seconda al mondo” (Der Spiegel – Corriere della sera) e che conta nelle sue attività produttive ben “800 milioni di lavoratori” (Der Spiegel -ibidem).

Ma a che punto è la Cina nel suo sviluppo?

Per  averne un’idea  prendiamo in esame dati significativi. 

Ancora 20 anni fa la Cina veniva considerata un paese arretrato, in via di sviluppo, dove la popolazione era ancora molto povera. Da allora però, in questo brevissimo lasco di tempo, le cose sono notevolmente cambiate.

Adesso il 98% delle famiglie nelle città possiede gli elettrodomestici (frigo, tv, lavatrice, ecc.) e si può dire che in questo settore, più o meno siamo ai livelli dei paesi occidentali. Anche gli stipendi hanno avuto dei notevoli rialzi: si stima che nelle grandi città un operaio medio cinese percepisca  all’incirca 4.800 euro all’anno.

Per quanto riguarda il settore automobile viene valutato che 1 persona su 10 abbia la patente e che 1 famiglia su 6 abbia la macchina. Se ne desume che mediamente per 1 famiglia che ha la macchina, 2 persone abbiano la patente, guidando però una sola auto.

Nel 2015 sono state immatricolate in Cina più di 23 milioni di auto e con una produzione annuale di 21,1 milioni la Cina si pone al primo posto come produttore mondiale, produzione mondiale che in totale si aggira sui 60 milioni.

In base a tutti questi dati si può valutare che l’attuale livello di sviluppo in Cina sia paragonabile a quello di nazioni come l’Italia, la Spagna, la Grecia durante il boom economico dell’inizio anni ’60.

I dirigenti cinesi prevedono che nei prossimi 10 anni la produzione cinese di auto raddoppierà, portandola in media a 1 auto ogni 3 famiglie,   produzione nazionale di auto che corrisponderà all’incirca alla metà di quella mondiale. Per arrivare a questo il governo cinese sta ampliando notevolmente i suoi siti di produzione di auto, permettendo a fabbriche di automobili come VolksWagen, Hyundai, Honda, General Motors e Renault di parteciparvi massicciamente.

Visto che, dovuto alla concorrenza di paesi che fanno prezzi più bassi, in generale le esportazioni cinesi sul mercato mondiale stanno  subendo una contrazione, il governo della borghesia cinese per il prossimo futuro si sta orientando di aumentare la vendita dei  propri prodotti sul proprio mercato interno. Questo darà come  risultato  un livello di vita paragonabile a quello occidentale. 

Raggiunto questo livello, seguendo un ciclo che altri paesi sviluppati  (quelli occidentali) in queste situazioni hanno già percorso, arriverà anche per la borghesia di stato cinese la fase in cui di nuovo cambierà la sua produzione, vale a dire da una produzione e vendita di prodotti a bassa tecnologia com’è adesso, ad una produzione e vendita di prodotti ad altissima tecnologia (venderà fabbriche, aeroporti, dighe, treni, impianti altamente sofisticati, armi, ecc) come è nei  paesi occidentali e rivolgerà la sua enorme potenza  economica e finanziaria (e non solo) alla conquista di mercati internazionali dove poter vendere i propri prodotti.

Sarà in questa futura situazione che dovrà scontrarsi duramente con gli altri predoni imperialisti che già imperversano nel mercato internazionale. E gli effetti che ne deriveranno, anche gli enormi disastri, come spiegato da Marx e come ripetutamente successo nel passato, ritorneranno ad essere all’ordine del giorno. 

 

Questo è il capitalismo.

 



-SCONTRO TRA BORGHESIE-

LA BASSA SPESA MILITARE

DELL’IMPERIALISMO CINESE

-IL BASSO PROFILO DEL GOVERNO CINESE PER NON INIMICARSI LE BORGHESIE VICINE-

 traduzione da "Der kommunistische Kampf" - giugno 2015

 

 

“Ogni volta che la Cina rivela l’ammontare del budget annuale destinato alle spese militari, la notizia genera grande scalpore sia a livello nazionale che internazionale.”… “La principale accusa che viene mossa alla Cina è che essa stia aumentando troppo rapidamente la spesa destinata alla difesa. In realtà, (…) la spesa destinata al comparto militare è cresciuta meno rapidamente rispetto ad altri settori come il welfare, l’assistenza sanitaria e l’educazione.” Questo è quanto afferma Martina Dominici su “Il Sole 24 ore” del 6 marzo 2015 nel suo articolo “Quattro falsi miti sulla spese militari in Cina”.

Noi, andando ad approfondire e ad analizzare i dati, troviamo la piena conferma di quanto la Dominici sostiene.

 

La Cina, vale a dire la borghesia statale cinese, è diventata ormai da diverso tempo la 2° potenza economica nel mondo, come il grafico evidenzia.

 

 

Sebbene la borghesia cinese abbia un produzione economica mondiale che si avvicina a quella dell’imperialismo americano, (qui il grafico mostra la quota cinese al 14,9%, mentre quella americana al 17,1%), la spesa militare cinese è bassissima, al 9,5% sulla spesa militare totale mondiale, al contrario dell’imperialismo americano che con una percentuale di  Pil mondiale appunto del 17,1 detiene un’incredibile  spesa militare  del 39% (quasi la metà dalle spesa militare mondiale!) come il 2° grafico sotto riporta.

 

 

Per capire meglio se esiste o no un riarmo cinese prendiamo anche un altro dato estremamente significativo che viene sempre citato per capire l’effettiva potenza militare di una nazione : le flotte navali con relative portaerei annesse.

Le portaerei-flotte navali  vengono considerate un’arma estremamente potente e efficace nello scontro esistente tra borghesie per  difendere i loro “interessi-affari” in giro per il mondo.

 

Vediamo i dati:

 

 

Anche in questa  tabella  si nota chiaramente  come anche in questo settore militare cruciale,  l’armamento della borghesia cinese sia  nettamente inferiore  al suo peso economico e addirittura nettamente inferiore anche ad altre borghesie concorrenti che hanno una produzione economica molto inferiore a quella cinese.

Facciamo dei confronti :  si può notare che l’imperialismo americano con una produzione economica mondiale del 17,1%, oltre ad avere come detto  una spesa militare nel mondo del 39%, ha  10 flotte navali con relative portaerei in servizio, 1 di riserva e 3 in costruzione; la borghesia cinese con il 14,9 della produzione economica mondiale ha, come detto IL 9,5% della spesa militare mondiale, ma possiede solo  1 portaerei con relativa flotta navale. Interessante da osservare sono le situazioni dell’India e della Russia: la borghesia indiana con il 6,4% del prodotto mondiale ha si solo il 2,6% della spesa militare mondiale, ma 2 portaerei-flotte navali  in servizio e 2 in costruzione (questo si che si può chiamare un riarmo!), mentre il padronato russo con solo il 3,5% della produzione mondiale dispone del 5,2% della spesa militare mondiale, con 1 portaerei-flotta navale in servizio e 2 in costruzione. Da osservare anche la situazione della Gran Bretagna che con solo il 2,4% del prodotto mondiale detiene il 3,5% della spesa militare totale, con 1 portaerei-flotta navale in servizio, ma 2 in costruzione. Ancora più interessante  è la situazione militare dei due imperialismi tedesco e giapponese che hanno perso la seconda guerra mondiale:  la Germania con una produzione economica mondiale del  3,7%  ha una spesa militare del 2,6%, ma nessuna bomba atomica e nessuna  portaerei-flotta navale e il “Base Structure Report 2002” riporta che sul suo territorio nazionale stazionano ancora circa 300 basi militari americane , il Giappone con il 4,8% del prodotto mondiale ha solo il 3,4% della spesa militare mondiale e anche questo nessuna bomba atomica e nessuna portaerei-flotta navale e sul suo territorio si trovano ancora più di 70 basi militari americane (fonte:ibidem).  E’ evidente che aver perso la 2° guerra mondiale costa ancora molto caro ai padronati di queste due nazioni: è chiaro che la borghesia americana vincitrice della  guerra permette loro un armamento di difesa, ma impedisce un riarmo d’attacco.

 

A questo punto viene normale chiedersi: come mai la borghesia statale cinese tiene una spesa militare così bassa?

“La crescita della spesa militare cinese viene spesso indicata come fonte di grave minaccia per gli altri attori coinvolti nell’area Asia-Pacifico” prosegue Martina Dominici nell’articolo succitato. E’ proprio così, le borghesie delle nazioni adiacenti alla Cina ( Corea del sud, Thailandia, Vietnam, Indonesia, ecc. ecc.) vedono, in un forte riarmo dell’imperialismo cinese, un grave pericolo per le loro autonomie. La borghesia cinese vuole evitare questo e vuole invece coinvolgerle in accordi economici molto favorevoli per loro. Perciò tiene la spesa militare molto bassa per non destare preoccupazioni e sospetti e contemporaneamente promuove accordi economici bilaterali con i vicini per creare le basi di future alleanze politiche. E la cosa per il momento funziona.

Questa la situazione.

 

Bisogna aver chiaro che la borghesia cinese non è meno guerrafondaia delle altre, non è una borghesia “buona”. Nel sistema capitalistico non esistono borghesie “buone”!  Il  basso status di armamento cinese è solo una questione di calcolo politico, per non preoccupare le borghesie vicine. Appena ne varrà la pena, anche l’emergente e dirompente imperialismo cinese si armerà fino ai denti e si getterà nella mischia dello scontro per tenere al massimo i profitti.

 


 

-ACCORDO BANCARIO “BRICS”-

(Brasile, Russia; India, Cina, Sud Africa)

 

IL PADRONATO STATALE CINESE MUOVE I SUOI PRIMI PASSI IMPERIALISTICI SULLA SCENA MONDIALE

 traduzione da "Der kommunistische Kampf" - novembre 2014

 

 

Nel mercato globale lo  scontro continuo tra potenti borghesie per perseguire i propri interessi è inarrestabile. E’ la stringente logica del capitalismo.

L’imperialismo americano grazie alla vittoria della 2° guerra mondiale ha potuto gestire per lungo tempo l’ordine mondiale a suo favore.

Naturalmente le cose non possono rimanere sempre così. Tutto è in movimento, tutto è in sviluppo continuo, in modificazione. E’ la visione realistica di Lenin dello “sviluppo ineguale”.  E nazioni che ieri erano arretrate e non contavano niente oggi, dopo decenni di tumultuoso sviluppo acquistano un peso considerevole sulla scena planetaria.

Negli anni ’50 in piena guerra fredda, i compagni internazionalisti vedevano, in prospettiva, nella crescita di potenti borghesie asiatiche, soprattutto cinese e indiana, gli elementi che avrebbero poi stravolto l’ordine mondiale uscito dalla 2° guerra mondiale.

Adesso questo è realtà.

Oggi grandi padronati emergenti come Cina, Brasile, India, Indonesia, Messico ecc. stanno cercando a gomitate nella lotta di accaparramento, di farsi spazio per avere fette più grosse di mercato mondiale. Una  lotta che è spietata e non conosce regole. Nella competizione tra di loro le borghesie instaurano alleanze e scontri che, in una dinamica pazzesca non trova mai un punto fermo. Marx precisa che questo è una delle leggi  fondamentali del funzionamento del sistema capitalistico. I contestatori di Marx  hanno tentato di teorizzare leggi diverse, cioè una lotta “pacifica”. Inesorabilmente la storia li ha sempre smentiti. La società capitalistica, per noi putrefatta, da superare, funziona così.

Alleanze e scontri che, sono di tipo economico, finanziario, politico o militare.

E le nuove grandi borghesie emergenti stanno muovendo i loro primi passi nella direzione imperialistica, stanno facendo le loro prime esperienze.

Nel luglio di quest’anno i paesi appartenenti ai BRICS  (Brasile, Russia, India, Cina e  Sud Africa ) hanno siglato nel vertice di Fortaleza in Brasile un accordo per la costituzione di una nuova banca mondiale, la New Development Bank (NDB).

Questa nuova banca è stata vista in occidente subito come una sfida alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale (FMI) gestite praticamente dagli Stati Uniti.

L’istituzione di questa  banca era già stata preorganizzata dai paesi BRICS  nel precedente vertice di Durban in Sud Africa l’anno scorso.

Il motivo per cui si è arrivati alla formazione della New Development Bank  è da ricercarsi nel fatto che queste nuove potenti borghesie emergenti non riescono a trovare sufficiente spazio d’affari all’interno del Fondo Monetario Internazionale. Di fronte alle loro pressanti richieste le vecchie potenze nel 2010 si erano ufficialmente impegnate ad aumentare il loro peso all’interno del FMI,  ma l’impegno poi non è stato mai rispettato.

Da qui la decisione BRICS di crearsi una banca mondiale per conto proprio. (evidentemente i soldi non mancano, soldi estorti dal lavoro dei lavoratori!).

Visto il ruolo trainante che la borghesia di stato cinese gioca in questa faccenda, la formazione della nuova banca viene visto come una prova di leadership da parte di Pechino.

Infatti nella  nascita della  New Development Bank  la Cina contribuisce con la quota maggiore di dollari,  41 miliardi,  India, Russia e Brasile partecipano con 18 miliardi ciascuno e Sud Africa con 5.

Significativi e chiarificanti  a sostegno della nuova banca sono stati i commenti espressi dai giornali e dai politici dei  paesi area BRICS in concomitanza con il vertice di Fortaleza. Per il prudente presidente cinese Xi Jinping la nuova banca porterà a “un ordine mondiale complessivamente più democratico” . Putin più categorico ritiene che è tempo di ridimensionare il ruolo dell’occidente  a guida americana e afferma che è ora “ di prevenire le vessazioni verso i paesi che non concordano con qualche decisione di politica estera degli Usa e dei loro alleati”.  Per la presidente brasiliana Dilma Rousseff  le decisioni del vertice  sono “un segno dei tempi”. Per il giornale indiano Hindustan Times, i vincitori della seconda guerra mondiale devono smetterla di comportarsi “come se la bilancia di potenza mondiale non fosse cambiata”.

Con l’istituzione della  nuova banca mondiale NDB  le borghesie delle piccole nazioni, che in certo qual modo si vogliono sganciare dal giogo americano, hanno ora la possibilità di un’alternativa dove chiedere soldi in prestito.

 

Cina, India, Brasile, Russia e Sud Africa possono ora da se stessi giocare il  ruolo imperialista. 

 


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